Nei giorni scorsi, a Firenze, si è tenuta l'ultima, esibizione, in ordine di tempo, dell'europarlamentare Roberto Vannacci. Nel suo intervento una frase mi ha colpito profondamente: «La violenza è sempre a sinistra».
Lucia Maestri, 23 settembre 2025
Vengo da una lunga e coerente storia di sinistra, fatta di vittorie e sconfitte ma, da sempre, estranea a qualsiasi forma di violenza. Ho vissuto stagioni intense, segnate da asprezze e drammi, dove la deriva violenta della politica è stata carattere dominante di minoranze estremistiche di destra come di sinistra. A tutto questo, il grande movimento ideale del riformismo democratico e antifascista, che non poco ha contribuito alla storia della nostra Repubblica, è sempre stato estraneo ed avversario, come ricorda l'assassinio di Walter Tobagi e di Guido Rossa, ad opera delle Brigate rosse. Nessuno, credo, può mettere in discussione la netta e rigorosa presa di distanza del riformismo democratico da tutte le forme di estremismo «rosso» o «nero» che sia stato.
Fare appello alla memoria storica, forse, ci porterebbe su un percorso di reciproche accuse. È però doveroso rammentare come l'intera storia novecentesca della destra italiana sia segnata, più di qualunque altra, dall'uso politico della violenza individuale e collettiva.
Oggi, il dilagare della manipolazione delle verità storiche, non cela più la scomposta propaganda di parte. Mi pare sia in atto un radicale cambio di identità di taluni movimenti politici, a partire da quello leghista. La Lega Salvini-Vannacci, in cerca di nuova identità, pare aver troncato definitivamente ogni legame con le sue radici autonomiste e federaliste, scegliendo la strada del più bieco nazionalismo, affidandosi ad una figura divisiva, come quella dell'ex comandante della «Folgore».
La Lega ha abbandonato il convinto antifascismo di Bossi e delle origini padane; ha cancellato ogni memoria del progetto macroregionale del professor Miglio; ha eliminato qualsiasi riferimento ruspante a «Roma ladrona». La Lega, nell'affannosa rincorsa a posizionarsi più a destra della destra più estrema, si è consegnata nelle mani della retorica muscolare, dell'offesa facile e della delegittimazione dell'avversario politico, costruendo nemici immaginari e riducendo la complessità della competizione democratica a mero scontro personalistico.
Nel trionfo del solo urlo da comizio ha impoverito il dibattito riducendo la portata delle questioni ad una lettura sempre e solo manichea, per la quale «lei», la Lega, è nel giusto e tutti gli «altri» sbagliano meritando improperi e gogne mediatiche intrise di odio. C'è, in questa mutazione del leghismo, la denuncia dell'assenza di un chiaro progetto politico diverso da quello della sopravvivenza elettorale e la testimonianza di una debolezza di pensiero ormai evidente, sia nelle sedi nazionali, come nell'agire locale.
Dire che «la violenza è sempre a sinistra» è una forzatura pericolosa della storia, non solo perché dimentica il passato, ma perché autorizza l'affermarsi di una realtà che si nutre unicamente di macerie.
Certo, una parte della classe dirigente leghista, quella più moderata, sensibile e coerente, avverte il rischio incombente nella deriva perseguita da questi nuovi orientamenti. Uomini di potere e di consenso, come Zaia , Fontana e anche il felpato Fugatti, palesano la fatica nel contenere l'esuberanza politica di chi pretende posti e seggi e, al contempo, stentano a riconoscersi in una Lega che assomiglia sempre più ad un movimento estremista e nichilista, anziché ad un partito moderato e affidabile. Di fronte al «machismo» del vice-segretario paracadutista, costoro sanno che la continua esacerbazione degli animi potrebbe trascinarli su terreni elettoralmente pericolosi e in antitesi a quel «progetto centrista», che sembra invece essere il nuovo approdo nazionale della «premiata ditta» Meloni&Co. Eppure qualcuno di loro incespica, non persuaso che non è con l' esibizione della forza dei numeri che si governa (e la Lega nel centrodestra certo per numeri non primeggia). C'è un'allergia di fondo al confronto, al rispetto reciproco, al riconoscimento che la comunità che si rappresenta o si intende rappresentare, è fatta anche da quelli che «non hanno vinto». Che vanno ascoltati con rispetto, fino a farsi carico di qualche «bella proposta» da loro formulata (perché le belle proposte arrivano e come arrivano) «Quelli che non hanno vinto» rappresentano «l'altra parte della Comunità». L'arte del governo chiamerebbe il farsi carico delle aspirazioni di tutti, non solo dei desiderata dei propri fedeli. L'utilizzo di linguaggi consoni e non gonfi di contrapposizioni insanabili, sarebbe già un buon inizio. Come un buon inizio sarebbe tenere in conto il fatto che il vincere non ti consegna magicamente l'arma del «posso fare tutto», a prescindere. Dal cambio della Costituzione, in tema di giustizia, al più «misero» cambio di legge elettorale per garantire a qualcuno la sopravvivenza! È un richiamo vuoto il mio? Può essere! Il provenire da una cultura istituzionale solida e capace di riconoscere «l'altro da sé» mi impedisce di mantenere il silenzio circa la sopravvenuta incapacità di leggere, interpretare, tradurre le funzioni di governo come strumento di crescita di una comunità intera.
Nella speranza che le prossime esternazioni del già generale, non travolgano i leghisti più miti, e che le sue picconate non intacchino nel profondo anche il sentire leghista del nostro Trentino, auspico il rapido superamento di un dibattito (quello sul da che parte stia la violenza) per approdare ad un più concreto e democratico riconoscimento delle proposte e del pensiero e delle proposte altrui.
Chiedo troppo?