E se Pomigliano fosse una metafora dell'Italia? E se la classe operaia fosse tornata classe generale?
Giorgio Tonini, 25 giugno 2010
Magari per uno di quei ricorsi storici sui quali, tre secoli fa, aveva meditato Giambattista Vico, il grande filosofo napoletano al quale sono intitolati quegli stabilimenti Fiat? Difficile scrollarsi di dosso questa domanda. Soprattutto se prima ce ne siamo posti un'altra, la vera domanda, quella che invece sembra non interessare nessuno, la domanda che per prima un sindacato vero, cioè autonomo, unitario e riformista, non diviso tra organizzazioni che firmano a prescindere e organizzazioni che, sempre a prescindere, neppure si siedono al tavolo, si sarebbe posto e avrebbe proposto alla controparte e alla politica: perché la Fiat porta via la Panda dalla Polonia e la porta in Italia, a Pomigliano?
Sabato scorso, sul "Sole - 24 Ore", il numero uno di Renault spiegava perché la sua impresa, per le solite ragioni di costo del lavoro, sta "delocalizzando" tutte le fabbriche d'auto, tranne le due più pregiate, che resteranno saldamente in Francia: quella che costruisce la Laguna, ovvero il modello top di gamma di Renault, e quella dove si lavora alla nuova auto elettrica, che sta per entrare in produzione.
Da noi succede il contrario: Fiat "rilocalizza" in Italia il suo modello-base, quello a più basso valore aggiunto, quello che fa utili solo grazie ai volumi. O forse si potrebbe guardarla da un altro punto di vista e metterla così: Chrysler-Fiat, che grazie a Marchionne sta cercando di diventare una grande impresa multinazionale dell'auto, una delle pochissime che (forse) sopravvivranno alla terribile selezione in atto, ha deciso di "delocalizzare" la Panda dalla Polonia, per portarla a Napoli, nel cuore del Mezzogiorno d'Italia. Un modo di vedere la questione che parrebbe avvalorato dall'altra decisione Fiat: quella di chiudere Termini Imerese e di portare proprio in Polonia la linea produttiva della Lancia Y, che è un modello più "pregiato" della Panda.
Difficile non collegare questa lettura del caso Pomigliano con la drammatica considerazione del Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, al convegno del novembre scorso sul Mezzogiorno e ripresa dal Presidente Napolitano nella sua prefazione agli atti: "Il Sud, in cui vive un terzo degli italiani, produce un quarto del prodotto nazionale lordo e rimane il territorio arretrato più esteso e più popoloso dell'area dell'Euro". Proprio così: il territorio arretrato più esteso e più popoloso dell'area dell'Euro. Dunque, un territorio che, proprio a causa della sua "arretratezza", nella divisione internazionale del lavoro è naturalmente vocato ad ospitare produzioni a basso valore aggiunto. E a fare produttività più sulle quantità che sulla qualità. Per di più un territorio che, facendo invece parte dell'area dell'Euro, non può neppure godere dell'aiuto di un tasso di cambio favorevole.
Questo contesto strutturale, e non la perfidia di Marchionne, che non era un socialdemocratico ieri e non è diventato un affamatore del popolo oggi, è il cappio che si è stretto attorno al collo degli operai di Pomigliano. Ma è lo stesso cappio che stringe tutto il Paese, a cominciare dal Mezzogiorno. Un Paese che, oggi come quindici anni fa (tanti ne sono passati dalla epica rincorsa dell'Euro), deve decidere del suo destino: se vuole restare nell'area forte d'Europa, o se invece vuole uscirne. Per restare tra i forti, l'Italia deve fare oggi, finalmente, quel che non ha saputo fare in questi quindici anni: prendere atto della realtà, con realismo e umiltà, e mettersi all'opera con determinazione per diventare un paese efficiente, nel quale le risorse non vengano più bruciate in modo allegramente irresponsabile, ma impiegate nella costruzione di un futuro solido per noi e i nostri figli. Insomma, un paese meno cicala e più formica.
Questo è l'aut-aut che si sono trovati di fronte i cinquemila operai di Pomigliano. Non una scelta tra lavoro e diritti. Perché non sono diritti né l'assenteismo cronico, né la conflittualità permanente: queste sono degenerazioni inaccettabili, maturate in una zona di confine, non sempre netto, tra anarco-sindacalismo e criminalità organizzata, e che come tali vanno chiamate, considerate e condannate. Ed è bestemmiare la Costituzione, invocarla a tutela di queste abitudini intollerabili.
La vera scelta, il vero oggetto del referendum, era se accettare o no di ricominciare da un livello più arretrato di fatica, diciamo pure di sfruttamento intensivo della forza-lavoro: ciclo continuo, tre turni giornalieri su sei giorni, sette ore a turno, al netto delle pause. Sapendo che l'alternativa era finire ad ingrossare le fila della disoccupazione, della disperazione, in definitiva della camorra.
Quasi due terzi dei dipendenti di Pomigliano si sono dichiarati favorevoli a questo atto di responsabilità. Niente di meno, niente di più. Non sono finiti in Paradiso, ma non sono neppure precipitati nel Terzo Mondo. Hanno detto di si a portare a Pomigliano il modello Melfi. Hanno accettato condizioni di lavoro che un bravo dirigente di base della Fiom mi ha definito comunque più avanzate della media, non solo delle piccole, ma anche delle medie imprese metalmeccaniche del famoso Nord-Est.
Se ora Fiat manterrà l'impegno di rilanciare Pomigliano e se Marchionne riuscirà a vincere la sua terribile partita globale, per quei cinquemila ricomincerà la ripresa, la riconquista di migliori condizioni di vita e di lavoro, attraverso una contrattazione pragmatica e non ideologica, perché protesa nella ricerca di sintesi sempre più avanzate tra i sacrosanti interessi dei lavoratori e la ineludibile competizione ormai mondiale sulla produttività.
In questo senso, Pomigliano è una metafora dell'Italia e la classe operaia è tornata classe generale. Perché il voto responsabile di quelle tute blu (oggi diventate bianche) non può restare confinato nel mondo dell'industria, nel mondo produttivo in genere, in quella parte d'Italia che è stretta nel cappio tra la caduta della produttività totale dei fattori del nostro sistema-paese e l'appartenenza alla stessa area monetaria di paesi che sanno far crescere la loro produttività a vista d'occhio.
Se vogliamo che il Paese resti unito socialmente e se vogliamo che l'Italia resti una Nazione, dobbiamo fare della competitività un obiettivo di tutto il sistema, non solo dei settori esposti alla concorrenza internazionale. La competitività non è affare solo delle tute blu, ma anche (e oggi, in Italia, innanzi tutto) dei colletti bianchi: dei settori che hanno a che fare con la spesa pubblica, come con quelli che operano nella finanza.
Il Governo Berlusconi sta cercando di dividere i dipendenti pubblici dai mondi produttivi. Quel che serve è invece un nuovo patto tra produttori e terziario pubblico e privato. Ma nessun patto sarà possibile senza riforme vere, che taglino in profondità, alla radice, il tumore mortale della spesa improduttiva, del parassitismo corporativo, delle molte forme di rendita di posizione. Più in generale, della inadeguatezza dei risultati di interi comparti, basti pensare a scuola e università, rispetto agli standard internazionali.
Solo se il centrosinistra saprà avanzare proposte chiare e nette di riforma dello Stato, della macchina pubblica, del welfare, delle professioni, che consentano di "fare meglio con meno", ovvero di produrre risultati migliori con le stesse e anzi con meno risorse, perché c'è il debito da ridurre, potrà opporsi in modo credibile alla rassegnata politica tremontiana dei "tagli lineari sulle voci rimodulabili", ossia dello stress tanto iniquo e doloroso, quanto inefficace, della spesa pubblica.
Questa è la sfida che Pomigliano ci consegna. Insieme all'ammonimento di Giambattista Vico, frutto di una lettura sapiente della storia umana: "paion traversie eppur sono opportunità".