La destra e la retorica dell'invidia

Il discorso della ministra Santanchè alla Camera, incentrato su un presunto sentimento di invidia nei confronti del suo stile di vita e delle sue scelte estetiche, non è un semplice episodio di difesa personale, ma si inserisce in una più ampia e consolidata narrazione politica.
Valeria Parolari, 26 febbraio 2025

 

La destra italiana, soprattutto quella formatasi nel dopoguerra e poi evolutasi nelle sue diverse espressioni, ha spesso costruito la propria identità intorno al concetto di rivalsa, sviluppando un’immagine di sé come forza a lungo esclusa dal perimetro del potere legittimo e costretta a una sorta di marginalità politica e culturale.

Questo sentimento di esclusione, reale o enfatizzato a fini retorici, ha alimentato una visione del mondo fortemente polarizzata, nella quale il conflitto politico e sociale viene spesso letto in chiave di rancore e sospetto. In questa prospettiva, l’idea che la sinistra (o chiunque critichi esponenti di destra) sia mossa dall’invidia più che da argomentazioni di merito diventa un leitmotiv ricorrente. Non si riconosce la possibilità di un dissenso fondato su valori o su una diversa idea di etica pubblica, ma si riduce tutto a un livore personale, a un desiderio di demolire chi ha raggiunto il successo.

Questa lettura è figlia di un meccanismo psicologico e politico più profondo: chi costruisce il proprio mondo sulla logica dell’ostilità e del sospetto, chi vede nell’altro un nemico piuttosto che un interlocutore, tende a proiettare questa stessa attitudine sugli avversari. Si immagina che chiunque critichi lo faccia per meschinità o risentimento, perché questo è il filtro attraverso cui si interpreta la realtà. In altre parole, se si è abituati a concepire il potere come una mera conquista e non come una responsabilità, si fatica a concepire che il dissenso possa nascere da una legittima preoccupazione per l’interesse collettivo anziché da un sentimento di frustrazione personale.

Di fronte a questo schema, la risposta più efficace non è accettare la provocazione né ridurre la questione a un dibattito sulla moralità individuale, ma rimettere al centro il tema della qualità della politica e del senso delle istituzioni. Perché il punto non è se una ministra indossi il tacco 12, ma come interpreta il suo ruolo e con quale visione affronta le sfide del Paese.