«Mi spiace, ma il Pd sta sbagliando». Si dice amareggiato, Giorgio Tonini. Sono le notizie che legge sui giornali, nelle pagine di politica, a gettarlo nello sconforto. Mai come quest’anno il 5 settembre, anniversario del patto De Gasperi Gruber, arriva in un momento in cui l’autonomia è sulla bocca di tutti.
Jacopo Strapparava, "Corriere del Trentino", 5 settembre 2024
Il 19 giugno, dopo una lunga seduta notturna, la Camera ha approvato in via definitiva la legge Calderoli. Ora — una volta stabiliti «i livelli essenziali delle prestazioni», i servizi da garantire in modo conforme su tutto il territorio nazionale — le regioni ordinarie potranno chiedere a Roma maggiori poteri. Per l’opposizione è «lo spacca-Italia». Pd, Arci, Anpi, Uil, Cgil, Acli, Alleanza Verdi e Sinistra, Rifondazione e 5 Stelle hanno raccolto 500 mila firme per chiedere un referendum abrogativo.
Tutto questo, a Giorgio Tonini, non piace. L’ex senatore — 65 anni, cattolico con sette figli, quattro volte a palazzo Madama, già candidato del centrosinistra alla Provincia nel 2018 — oggi si definisce «un reduce che guarda le cose da lontano». Ma se interrogato, risponde. E spiega: «A me farebbe soffrire vedere il mio partito sposare idee superficiali su questo terreno. Sarebbe un errore. Un errore storico. Un errore di quelli che si pagano per moltissimo tempo».
Perché dice che il Pd sbaglia?
«Fummo noi dell’Ulivo a riformare il Titolo V, ormai un quarto di secolo fa. Da allora l’articolo 116 della Costituzione prevede tre commi. Comma 1, le regioni a statuto speciale. Comma 2, le province autonome di Trento e Bolzano. Comma 3, la possibilità per le regioni ordinarie di chiedere nuove competenze allo Stato. Ecco. La legge Calderoli si basa su questo. E il punto è che l’abbiamo messo lì noi».
Come andarono le cose?
«Era un lavoro condiviso, nella bicamerale D’Alema. Poi Berlusconi fece saltare il tavolo, ma il centrosinistra volle mantenere viva la parte meno controversa, su cui eravamo d’accordo tutti. Tornare a dividersi 25 anni dopo tra fautori del centralismo e fautori della sussidiarietà è una sciagura per il Paese e un autogol da parte nostra. Non possiamo cambiare idea solo perché ora gli avversari ci danno ragione».
Della legge Calderoli cosa pensa?
«Una fotocopia del disegno di legge Boccia, scritta da Francesco Boccia, nostro ministro nel Conte II. Una semplice legge attuativa del comma 3 dell’articolo 116. Poi, certo, è difficile mobilitare le masse su questioni tecniche, allora la propaganda tira in ballo l’unità del Paese. Ho appreso, peraltro, che oggi per dirsi antifascisti bisogna essere contrari all’autonomia. Avevo sempre creduto che il fascismo fosse iper-centralista…».
Non le pare che tante polemiche siano un tentativo di dare un colpo di grazia al declinante Salvini?
«Di fronte alla Costituzione, Salvini è un moscerino. Non si spara su una casa, per colpire un moscerino».
L’autonomia trentina è in pericolo?
«Il nostro Statuto è di rango costituzionale, non è toccato né dalla legge né dal referendum. Ma questo non vuol dire che noi trentini possiamo anche andarcene in vacanza e disinteressarci della questione. Se nel resto del Paese si diffonde l’idea che l’autonomia è uno spacca Italia, che solo lo Stato può garantire l’uguaglianza tra i cittadini e che la nostra autonomia è tollerata solo perché a nord di Salorno abbiamo un po’ di tedeschi...be’, non mi sembra che sia un bene per noi».
La nuova legge è subordinata alla definizione di questi famosi lep...
«Sarebbe un ottimo momento per discuterne. Stiamo vivendo un passaggio delicato. Il governo deve presentare a Bruxelles un piano di sette anni per rientrare nel nuovo patto di stabilità. Abbiamo tremila miliardi di debito, margini per aumentare la spesa pubblica non ce ne sono. Ci sono però ampi margini di razionalizzazione della spesa. Ma questo lavoro si può fare meglio sui territori. Non in solitudine da un ufficio di via XX settembre».
Cosa risponde a chi dice che il Sud sarà abbandonato?
«Pensi alla scuola, il settore più centralizzato che ci sia. Formalmente è uguale per tutti, poi però esiste un divario incredibile tra nord e sud. Mi sembra paradossale sostenere che la soluzione dei problemi del Mezzogiorno debba arrivare dal centralismo romano».
La Cei dice che si rischia di creare due Italie, «una prospera, l’altra abbandonata a sé stessa».
«Non voglio mettermi a polemizzare con i vescovi. Sono credente, ma in politica mi sono sempre mosso in maniera laica. Alla gerarchia spetta stabilire i principi, i mezzi per attuarli dobbiamo a trovarli noi. Detto questo, il tema è: come garantiamo al Sud una strada per lo sviluppo? Devono rassegnarsi all’idea di essere assistiti per sempre? La verità è che l’autonomia implica responsabilità. Ciascuno metta a frutto i talenti ricevuti. Altrimenti quello diventa un destino. Un destino di dipendenza e assistenza. Come è sempre stato. Il vero pericolo è questo: che non cambi niente, non che cambi chissà che».