Ha ragione Enrico Franco, sul «Corriere del Trentino» di domenica scorsa, a dipingere in chiaroscuro il risultato elettorale del Pd: certo non esaltante, ma almeno incoraggiante nella nostra regione, preoccupante invece nel resto del Paese. Partito dell’establishment, definisce Franco il Pd, espressione dell’élite, ma lontano dal popolo. Difficile smentire: la percezione diffusa è questa, in gran parte lo è anche la realtà.
Giorgio Tonini, "Corriere del Trentino", 12 ottobre 2022
Il rimedio però non è facile da trovare e il consueto appello alla «militanza di base», che certo non guasta, convince fino a un certo punto. Il divorzio tra rappresentanza e governo è infatti uno dei segni del nostro tempo e una delle principali criticità della democrazia in tutto l’Occidente. L’affanno della sinistra sul terreno della rappresentanza, in particolare tra i ceti popolari che si sentono (e in gran parte sono) i perdenti della globalizzazione, è un dato che accomuna le due sponde dell’Atlantico. Di converso, la destra che appare oggi in vantaggio nel rappresentare la frustrazione dei ceti medi impoveriti e impauriti, annaspa poi nel tradurre questa capacità di rappresentanza in risposte di governo realistiche ed efficaci. La brevità dei cicli di popolarità di leader e partiti sta lì a dimostrare la fragilità di entrambi i versanti dello schieramento politico, italiano e non solo. La stessa distribuzione territoriale del consenso al partito di Giorgia Meloni è un dato eloquente: partito tradizionalmente meridionale, Fratelli d’Italia nel Mezzogiorno è stato battuto dai Cinquestelle.
La giovane leader della destra italiana è parsa consapevole della contraddizione tra rappresentanza e governo. E ha preferito sacrificare una quota di rappresentanza, rinunciando a inseguire il movimento di Conte nella contesa per il consenso delle aree più sofferenti del Paese, pur di rafforzarsi, in Italia e in Europa, sul piano dell’accreditamento come forza di governo. Il sempre più difficile equilibrio tra consenso popolare e credibilità di governo riguarda insomma tutte le forze politiche e non sembrano essere a portata di mano soluzioni facili. Almeno fino a quando non verrà superata l’attuale contraddizione, stridente in particolare in Europa, tra la scala ormai irreversibilmente globale delle principali sfide del nostro tempo e la persistente centralità, sul piano politico democratico, della dimensione nazionale. In questa assai probabilmente lunga transizione, l’unico realistico terreno d’azione delle forze politiche, a sinistra come a destra, non potrà che essere quello della difficile ricerca e dell’ancor più difficile mantenimento di un punto di equilibrio: tra globale, nazionale e locale, tra rappresentanza e governo, tra élite e popolo.
Il Pd deve dunque diffidare delle soluzioni apparentemente facili, quali quelle che si prospettano alla sua destra e alla sua sinistra: sul versante Calenda-Renzi, come su quello Grillo-Conte. Soluzioni che hanno il fascino della radicalità, ma anche il rischio di una insanabile divaricazione tra tecnocrazia e populismo, se viene meno la faticosa e paziente costruzione di un riformismo a vocazione maggioritaria, mosso dall’ambizione di saldare tra loro, per quanto in modo sempre provvisorio, idee e forze, interessi e valori, meriti e bisogni, attorno a una plausibile e realistica proposta di governo per il Paese.
La funzione del Pd, oggi più che mai, deve essere insomma quella di unire ciò che tanti, troppi, nel centrosinistra sono impegnati a dividere. Esserci riusciti, almeno in parte e certamente meglio che nel resto d’Italia, è la principale ragione del risultato, almeno incoraggiante, del centrosinistra (e del Pd) in questa nostra regione. Non solo tre eletti: due senatori (grazie alla felice anomalia del sistema elettorale e delle alleanze politiche al Senato) e una deputata. Ma anche e soprattutto il riequilibrio nei rapporti di forza con il centrodestra. La coalizione guidata da Fratelli d’Italia in Trentino ha raccolto al Senato quasi tremila voti più dell’Alleanza democratica per l’autonomia. Ma nel 2018, alle politiche, con il Patt in appoggio del centrosinistra, il vantaggio del centrodestra era stato quasi dieci volte più grande: 26 mila voti. E alle provinciali, senza il Patt, il divario aveva raggiunto i 50 mila suffragi. Stavolta, la destra non ha perso solo un seggio trentino al Senato (per 200 voti potevano essere due), ha lasciato sul terreno più di 20 mila voti, mentre l’Alleanza ne ha presi quasi 5 mila in più, con meno votanti e senza il Patt. Nulla è scontato, la strada è ancora lunga e difficile, ma il divario di quattro anni fa è stato oggi praticamente azzerato e si è riaperta una partita, quella del 2023 per la guida della nostra autonomia speciale, che da molte parti veniva già data per chiusa.
Ora noi del Pd dobbiamo innanzitutto evitare di farci del male da soli (disciplina nella quale siamo campioni assoluti). Lavorare sodo per rafforzare il radicamento del partito nei settori sociali e nei territori (evitando inutili conflitti interni tra individualità autocentrate), consolidare la coalizione attorno a un candidato presidente da scegliere insieme, tenere aperto il canale con Patt e Svp, anche valorizzando l’apporto dei due senatori che abbiamo eletto a Trento e a Bolzano, da sempre in ottimi rapporti con il mondo sudtirolese. Chissà che non scopriamo che se la partita si è riaperta, è anche perché forse il Pd è meno lontano dal popolo di quanto talvolta si pensi.