Ricostruirsi, ripensarsi, partire da zero. E farlo non è per nulla semplice. Lo sanno bene i Democratici, alle prese con le riflessioni del giorno dopo. Per i maligni un rituale quello dell’«analisi della sconfitta» che ricorda da vicino la tradizione del Pci nel post elezioni. A Roma il 19,7% raccolto in giro per l’Italia vuol dire interrogarsi su quello che il partito vuole fare da grande.
D. Cassaghi, "Corriere del Trentino", 12 ottobre 2022
Per questo il segretario Enrico Letta ha dato il la a un congresso quanto mai atteso: un processo che si dovrebbe concludere il prossimo marzo e che avrà effetti anche sul territorio Trentino, alle prese con le provinciali. Tanto più che nello stesso periodo è previsto anche il congresso provinciale e la segretaria Lucia Maestri è in scadenza. «Decide l’Assemblea. Se è buona la discontinuità, sono disponibile, se si decide per la continuità, sono disponibile», dichiara.
Nell’ultima direzione nazionale del Pd un ritornello abbastanza insistente era questo: «Bisogna tornare ai territorio e parlare con la gente». E la domanda rimane: in che modo? Forse, iniziando da quello che c’è. Il Pd in Trentino ha circa mille iscritti e una copertura di circa sessanta circoli su tutto il territorio, più consistenti nelle città, ma «negli ultimi anni il Pd provinciale ha intrapreso un lavoro di rivitalizzazione dei circoli nelle valli: Giudicarie, Primiero e Val di Fiemme — spiega la segretaria Maestri — stiamo lavorando su Val di Non e Sole». E il Pd provinciale ha lanciato una campagna d’ascolto chiamata «Trentino territori protagonisti» che, dice Maestri: «va riproposto. Abbiamo coinvolto 500-600 persone». Incontri che si affiancano alle Agorà. Qui le più partecipate hanno visto dai 90 ai 150 aderenti.
Eppure dato il risultato a livello nazionale, al Nazareno qualcuno si interroga su cosa sia andato storto, «Le Agorà non stanno dando i loro frutti, ma non vedo alternative — dice l’ex sindaco di Trento Alberto Pacher — La rappresentanza si ritrova provando a costruire una capacità di pensiero più allargata possibile: ricucendo il rapporto con i corpi intermedi, sindacati e associazioni di categoria. Un dialogo che non può essere lasciato alla sola sfera istituzionale». Perché il Pd è, per molti, il partito dei sindaci e degli amministratori, che rispondono direttamente ai cittadini. Ma spesso in Italia non sono loro nelle liste. «Se le scelte dei candidati avvenissero su base regionale e non centralizzata, allora gli elettori riconoscerebbero la persona sul territorio e la riconoscerebbero coerente nel Pd — osserva la neoeletta alla Camera Sara Ferrari — non inventi o catapulti persone dalla sera alla mattina, chiedendo un voto fideistico. Se valorizzi le esperienze di chi è conosciuto sul locale, arrivano i voti ed è più facile che vengano riconosciuti gli sforzi delle donne. Queste fanno la gavetta sul territorio, ma poi restano sotto la scure delle correnti nazionali, che sono appannaggio maschile. Ci potrebbe essere un duplice vantaggio anche per il riequilibrio nella rappresentanza di genere. Le primarie aperte a tutti i cittadini (non solo agli iscritti) aiuterebbero ad aprire spazi di partecipazione di chi vede il Pd come casa propria». Insomma, Roma ha la testa a cose romane e per ritrovare la fiducia nei cittadini serve valorizzare il locale, togliendo potere alle correnti. «Il Pd dovrebbe partire dalla cosa migliore che ha: la sua base e i suoi amministratori — ribadisce il concetto il consigliere comunale di Trento Alessandro Dal Ri — di giovani amministratori capaci e a contatto con la realtà ce ne sono tanti per l’Italia. La classe dirigente romana dovrebbe fare un passo indietro a questo punto. Non so se lo farà. E se continuiamo a ragionare in termini di una sintesi tra ex-Ds ed ex-Margherita, siamo già morti. Perciò dico che a fare questa operazione di unità dovrebbero essere persone più giovani, che non sentono questa logica».
All’indomani delle elezioni, Dal Ri aveva scritto un lungo post su Facebook. La denuncia era semplice. Prima il sostegno a Monti durante la crisi del debito sovrano, poi i governi di larghe intese con Letta, Renzi e Gentiloni, la pandemia con il Conte II e da ultimo Draghi: per quasi dieci anni il Pd è stato il partito di governo. Dell’establishment dicono i maligni. E questo penalizza. «Quando sei al governo di un Paese in crisi permanente fai fatica a indicare qual è la tua proposta, legato come sei a vincoli di bilancio e situazioni contingenti — commenta Dal Ri — Non si riesce a comunicare una visione più ampia: di riforme sul mercato del lavoro o sul sistema fiscale. Perché proporla quando sei al governo non ha senso». Vanno bene la responsabilità, i bravi sindaci e consiglieri e le primarie, ma forse non basta. E Dal Ri non è l’unico a denunciare un deficit di «visione» nei Dem.
«Evidente che sia un partito che passando da Veltroni a Bersani a Renzi e Letta non sa dove vuole andare. Ai leader hanno dato scelte di indirizzo politico molto diverse — commenta Roberto Pinter, storico esponente dem — Ma il tema è chi vogliamo rappresentare: chi si sente precario, povero, senza futuro fa fatica a vedere nel Pd qualcosa. Qui in Trentino abbiamo risorse sociali particolari: cooperazioni, volontariato. Ma sono state licenziate decine di lavoratori e non si è battuto ciglio. Tutti si lamentano della precarietà, ma quando si è permesso al pubblico di subappaltare senza garanzie sui contratti, c’eravamo tutti. Se fai un partito solo di amministratori hai già perso: hanno visione parziale dei problemi e delle cose. Un partito che sia popolare deve avere nel suo gruppo dirigente tanto l’operaio che il precario, che l’ammininistratore. Altrimenti sembra che la politica ci sia solo quando sei al potere, quando è nata al contrario: con tutti i cittadini che potevano partecipare per scegliere che mondo vogliono». Tra i dubbi, rimane però la certezza che per le Provinciali si riparte da un’alleanza ampia.