Essere Comunità Autonoma significa, tra le altre cose, avvertire la responsabilità di fare di più e meglio. Questo vale anche quando parliamo di lavoro.L'impennata dell'inflazione unita al caro consumi ha fatto esplodere la questione salariale.
Alessandro Olivi, 19 giugno 2022
Il problema in realtà non è nuovo ma solo acuito dall'attuale contesto se è vero (come è vero) che l'Italia è pressoché l'unico Paese tra quelli più industrializzati dove, secondo l'Ocse, dal 1990 ad oggi le retribuzioni medie lorde sono diminuite (-2,9%).
Il Trentino non è esente da questa dinamica anche se nel settore manifatturiero i salari sono decisamente migliori.Il problema riguarda soprattutto i giovani sui quali si stanno scaricando le conseguenze della liberalizzazione del mercato del lavoro secondo un modello di sviluppo tanto caro anche all'attuale Giunta provinciale.Quello della qualità e adeguatezza delle retribuzioni è un problema che riguarda anche le imprese perché è dimostrato che ai bassi salari corrisponde una minore produttività. Soprattutto sono le imprese più solide e innovative che finiscono per subire la concorrenza sleale di chi insegue il profitto remunerando poco il lavoro. Senza dimenticare che c'è una stretta correlazione tra basse retribuzioni e instabilità del rapporto di lavoro.
In Trentino esiste una sperimentata cultura della concertazione ed è proprio un rinnovato patto tra organizzazioni sociali e imprenditoriali la base per coniugare salari, costo della vita e produttività.Certo sono necessarie riforme strutturali, su cui il Paese è in grave ritardo, che riguardano il taglio del cuneo fiscale, la detassazione degli incrementi e i rinnovi contrattuali e l'incentivazione della contrattazione aziendale e territoriale.Ma anche noi possiamo fare la nostra parte a cominciare da qualche passo coraggioso come sarebbe ad esempio l'approvazione della proposta di legge a mia prima firma che vuole spingere la Provincia, i sindacati e le associazioni datoriali a condividere regole per promuovere la rappresentanza contro il rischio dell'infiltrazione dei contratti "pirata" (in Italia ci sono più di 900 contratti collettivi) e in modo da giungere alla stipula di un accordo quadro territoriale in cui prevedere clausole sociali che tutelino la buona impresa e la qualità del lavoro.Altro tema attuale e dibattuto politicamente è quello che riguarda la carenza di forza lavoro in alcuni settori trainanti per la nostra economia come il turismo. Il problema esiste e non deve essere banalizzato.
A mio avviso la malattia da curare è l'eccessiva frammentazione e discontinuità del lavoro stagionale. Una parziale soluzione va ricercata nella stabilizzazione del rapporto tra imprese e lavoratori attraverso forme di integrazione e alternanza tra periodi di attività e formazione utilizzando le risorse e gli strumenti del Fondo di solidarietà territoriale per le piccole imprese e dei fondi bilaterali del terziario.Investire sulle competenze dei lavoratori anche stagionali significa fidelizzare la forza lavoro all'impresa e migliorarne complessivamente l'efficienza del sistema. Difficile farlo se i contratti sono di qualche mese col conseguente turn over dei collaboratori.Un terzo nodo "caldo" riguarda la riforma dei lavori socialmente utili.
La Giunta provinciale aveva esordito a inizio legislatura annunciando orgogliosamente tagli al Progettone e forse per questo oggi risulta un po' difficile avere fiducia in un disegno di legge che appare ammantato di buone intenzioni ma che nasconde alcune insidie. Parliamoci chiaro: l'esperienza del Progettone rappresenta uno dei più longevi strumenti di politica attiva del lavoro prodotti da una amministrazione pubblica in Italia e un esempio concreto di quanto l'Autonomia può essere capace di produrre innovazione sociale.
Un recente studio di Euricse ha stimato che attraverso il lavoro vero e non quindi uno dei tanti "bonus" il territorio, gli enti locali, le istituzioni culturali, le strutture di assistenza beneficiano di servizi di pubblico interesse che senza le lavoratrici e i lavoratori del Progettone peserebbero molto di più sulla finanza pubblica.Vi sono e vi saranno, in questo tempo di profonde trasformazioni, nuove fasce della popolazione che rischiano l'esclusione dal mondo del lavoro in età avanzata o per altre forme di fragilità e l'inclusione e protezione delle categorie deboli deve continuare ad essere il valore di questo strumento.Disinvestire invece da questa prassi virtuosa riducendo le risorse rischia di creare nuove sacche di vulnerabilità sociale con la conseguenza di maggiori oneri sul piano assistenziale.Da ultimo, ma non da ultimo, chiediamoci se vogliamo davvero farci carico della questione del lavoro femminile.
Se in Italia come in Trentino le ragazze si laureano di più ma poi scontano maggiormente la disoccupazione e se quando lavorano sono meno pagate degli uomini a parità di mansioni e se ancora, quando diventano mamme vedono penalizzata la loro carriera, significa che abbiamo un gigantesco problema.
Non solo sul piano della parità che è sacrosanta ma su quello della stessa efficienza del sistema economico e dei suoi livelli di crescita.Abbiamo fatto alcune proposte alla Giunta che riguardano l'implementazione delle misure di sostegno della conciliazione chiedendo che il reddito da lavoro femminile fino a 15.000 euro annui non venga calcolato negli indicatori utilizzati per l'accesso alle misure di sostegno alle famiglie con figli. Ma non basta. Serve una concreta presa in carico del problema del gender gap e lo si può fare in concreto attraverso l'introduzione di regole condivise che prevedano l'uguaglianza salariale tra uomini e donne come clausola per partecipare agli appalti e per beneficiare degli strumenti di incentivazione promossi dalla Provincia.Non basta più un "bollino" o una certificazione. Servono scelte politiche coraggiose e la volontà di farle.Alessandro OliviConsigliere provinciale del Pd