Roma, 22 maggio 2010
Siamo nel pieno di una crisi che sta sconvolgendo gli assetti consolidati d’Europa e del mondo. E sta mettendo in luce la radicale inadeguatezza delle classi dirigenti politiche di tutta Europa e del nostro Paese in modo particolare.
Il risultato di questo divario è che sta morendo tra gli italiani la speranza che le cose possano cambiare. Al suo posto, al posto della speranza, sta montando una rabbia sorda e cupa, che può produrre rivolte, anche violente, ma non cambiamento, men che meno quel ciclo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto e del quale ha un disperato bisogno.
C’è un solo modo, io credo, per metterci all’altezza del dramma che l’Italia sta vivendo, come ci ha chiesto e ci ha promesso Bersani: è quello di parlarci con franchezza e senza malanimo, dando prova di unità, solidarietà, amicizia tra di noi; è quello di ascoltarci tra di noi, ma soprattutto di metterci tutti all’ascolto del Paese.
Appena un mese fa, col loro voto, gli italiani ci hanno detto tre cose.
La prima è che hanno perso gran parte della fiducia che avevano riposto in Berlusconi, nel suo governo e nel suo partito: solo così si spiegano i 4 milioni di voti persi dal Pdl, quasi il 40 per cento di quelli raccolti nel 2008, nessuno dei quali è andato alla Lega, che ha anzi perso qualcuno dei suoi.
La seconda è che ancora non vedono in noi un’alternativa per il governo del Paese, anzi hanno in noi ancor meno fiducia che nel centrodestra: solo così si spiegano i quasi quattro milioni e mezzo di voti persi dal PD, il 43 per cento di quelli raccolti nel 2008. Attenti: è la prima volta, dal 1994 ad oggi, ed è al mondo un evento più unico che raro, che il crollo della fiducia nella maggioranza non si traduca in una crescita dell’opposizione.
La terza cosa che ci hanno detto gli elettori è che nessuna alleanza, né a sinistra né al centro, potrà mai compensare la nostra incapacità di espandere la nostra base di consenso. Lo dimostra in particolare il risultato dell’Udc: Pdl e PD, entrambi in crisi, perdono insieme più di 8 milioni di voti, ma il partito di Casini, che contesta il bipolarismo, non solo non ne intercetta nemmeno uno, ma lascia sul campo il 20 per cento dei suoi consensi.
Questo risultato, nella sua cruda durezza, mi pare si possa tradurre così: non possiamo sederci sulla riva del fiume ad aspettare la fine del berlusconismo. Solo cambiando noi stessi potremo far rinascere nel Paese quella speranza nel cambiamento che il PD aveva saputo suscitare e che oggi sta morendo. Altrimenti, il nostro continuerà ad essere un sorpasso sì, ma in discesa, nella fiducia degli italiani.
Cambiare noi stessi vuol dire, io credo, una cosa precisa per la minoranza e una cosa altrettanto precisa per la maggioranza.
Per la minoranza vuol dire rinunciare, senza se e senza ma, all’inveterata pratica della guerriglia interna, finalizzata al logoramento della leadership. Lo dicevo quando il segretario si chiamava Walter Veltroni. Lo dico oggi, con le stesse parole, quando si chiama Pierluigi Bersani. Noi non siamo un partito del leader, ma nessun partito può combattere e vincere senza una leadership rispettata e sostenuta lealmente da tutto il partito.
Non è stato così per Veltroni e il PD ha pagato un prezzo altissimo per questo. Ma è così oggi per Bersani. Anzi, è stata la minoranza, siamo stati noi a chiedere al segretario di ritirare le dimissioni di fatto che egli aveva dato dall’incarico forse più importante che lo statuto gli attribuisce: quello di essere il nostro candidato alla guida del governo del Paese. Mancano quasi tre anni alle elezioni. Oggi non c’è alcuna corsa per la leadership. Quando sarà il momento, saranno i fatti, sarà la politica a dirci cosa fare.
Ma cambiare noi stessi significa, a mio modo di vedere, una cosa altrettanto precisa per la maggioranza: significa non chiudersi a riccio nella difesa ottusa di una linea politica che il voto degli elettori ha giudicato insufficiente, da correggere e da integrare. Penso sia giusto e sia bello poter riconoscere a Bersani, a Letta, a tutta la segreteria, di aver accolto la sollecitazione, non solo e non tanto delle minoranze congressuali, ma degli elettori italiani, a sintonizzare meglio i nostri discorsi con le attese del Paese.
Prima il progetto, poi le alleanze, si è detto e scritto. E’ per questo che abbiamo lavorato e continueremo a lavorare su dossier decisivi, per il nostro posizionamento politico e programmatico, come quelli di cui ci siamo occupati qui ieri sera e stamani.
Con due avvertenze: la prima è che tutto questo nuovo lavoro rischia di apparire astratto, quasi futile, se non si traduce subito, già nei prossimi giorni, in una nostra proposta, al Governo e al Paese, per affrontare la crisi. Enrico Morando ha detto ieri cose molto chiare al riguardo che non sto a ripetere.
La seconda avvertenza è che il nostro lavoro programmatico deve essere finalizzato ad allargare la base del nostro consenso nel Paese, sia sul piano geografico – siamo il partito del Centro Italia e poco più – sia su quello sociale: siamo maggioranza solo nel ceto medio urbano intellettuale, prevalentemente dipendente pubblico.
Un segmento pregiato, intendiamoci bene, ma del tutto insufficiente. Siamo invece minoranza – e questo dovrebbe impedirci di dormire la notte – in tutto il mondo della produzione: agricoltori, operai, artigiani, lavoratori autonomi in genere, imprenditori, perfino giovani precari.
Ebbene, questa è la “vocazione maggioritaria” del PD: tradurre i nostri principi e valori democratici in proposte programmatiche che facciano incontrare, fino a saldarle in una nuova forza rimatrice, la città e il territorio, i ceti medi intellettuali e il mondo produttivo, in definitiva il lavoro e la cultura.
Un’ultima notazione, con la quale concludo. In tutta Italia, regioni “rosse” comprese, abbiamo perso il voto di tanti cittadini (stiamo parlando di milioni di voti), delusi dall’eccessiva distanza tra il “partito nuovo” che avevamo promesso e quello che abbiamo effettivamente realizzato.
In questo contesto, l’annunciato, drastico ridimensionamento delle primarie, ovvero della effettiva contendibilità delle cariche di partito e perfino delle candidature a sindaco e presidente di provincia o di regione, sarebbe stato un suicidio collettivo.
Bene ha fatto allora la Commissione statuto a correggere il tiro. Abbiamo così dato prova di condividere una consapevolezza comune: solo saldando il riformismo programmatico con il rinnovamento di metodi e persone, il PD potrà guidare la costruzione dell’alternativa di governo che serve all’Italia.
Grazie.