La politica del nostro Paese sta vivendo giorni complicati. Come si arriverà alla elezione del Presidente della Repubblica? E come si comporteranno le forze politiche? Ne parliamo con un acuto osservatore della politica italiana: Giorgio Tonini. Tonini ex senatore PD, giornalista ed esponente di spicco dell’area liberal, attualmente è Consigliere Pd della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.Confini.blog.rainews.it, 3 novembre 2021
Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione dal centrosinistra. Il principale partito del centrosinistra, il Pd, ha avuto una vittoria importante alle amministrative, poi però ha subito una pesante sconfitta al Senato. Mi riferisco alla votazione sul ddl Zan. Sappiamo l’esito che ha avuto (un esito pesante per il centrosinistra, ma sulle conseguenze politiche torneremo dopo). Che idea si è fatto della vicenda?
Sono lontano dal Parlamento da tre anni e mi è dunque difficile giudicare il lavoro e l’impegno degli altri. Non c’è nulla di più sgradevole, del resto, dei maestri del giorno dopo. La complessità delle dinamiche, non solo politiche, di questo Parlamento è poi tale da rendere pressoché impossibile prevedere in anticipo le mosse dei tanti, troppi attori che affollano le Camere. E tuttavia, proprio la constatazione di questa complessità avrebbe dovuto (credo) suggerire al Pd un approccio, ad un tema tanto controverso, più aperto e dialogico. Mi permetto di ricordare sommessamente che così facemmo, nella scorsa legislatura, con la legge sulle unioni civili: una legge di compromesso, che esclude il matrimonio per le coppie omosessuali, ma riconosce loro il diritto di affermare la valenza giuridica della loro unione. Grazie a questa mediazione la legge è stata approvata in Parlamento ed è stata accettata dalla società italiana, nelle sue diverse articolazioni politiche, culturali, religiose. E nella scorsa legislatura noi senatori del Pd eravamo il gruppo di maggioranza relativa e avevamo in mano l’arma della questione di fiducia, che infatti Renzi, allora presidente del Consiglio, pose al Senato sbloccando la situazione. A maggior ragione si sarebbe dovuto usare la prudenza e la propensione alla mediazione con numeri tanto meno favorevoli. Vorrei aggiungere che l’attitudine al dialogo e alla mediazione, in particolare sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, non è solo raccomandabile sul piano della prudenza e sapienza tattica: è parte costitutiva del patrimonio genetico del Pd, si pone, per così dire, come una “informazione cromosomica”, che dovrebbe essere messa in atto in modo immediato, quasi istintivo. Perché il Pd è nato sulla base della convinzione che mettendo insieme in modo aperto e dialogico visioni, culture, tradizioni diverse, si possano trovare soluzioni migliori, più avanzate, più condivise e in definitiva più efficaci, ai problemi del paese e delle persone. Se il Pd dimentica questa sua “vocazione”, finisce per perdere e soprattutto rischia di perdersi.
Veniamo alle conseguenze. Per Enrico Letta, quell’esito segna la perdita di fiducia nei confronti di Renzi. Certo questo pone, per alcuni osservatori, qualche problema: ovvero come proseguire nella costruzione del “campo largo” del centrosinistra. Qualcuno ha parlato di rischio fortino per il PD. Insomma come dovrebbe, secondo lei, proseguire il cammino per la costruzione del campo largo? E’ giusto il richiamo all’Ulivo?
Non voglio sminuire l’importanza dell’impegno per i diritti civili, che è tanto più sacrosanto quando riguarda minoranze discriminate, ma non credo che il naufragio del ddl Zan avrà conseguenze elettorali significative. Come ha detto nei mesi scorsi Romano Prodi, sono altre le questioni prioritarie nell’agenda delle famiglie italiane, a cominciare dalle questioni economiche e sociali. La sfida per la politica riformista è ancora quella di costruire un consenso maggioritario attorno ad un programma di riforme che renda il nostro paese più forte e più competitivo, perché più efficiente e più giusto. Gli alleati vanno selezionati sulla base di questo criterio. Tutto il resto, secondo me, viene dal maligno, dal demone della divisione (diavolo, come è noto, vuol dire divisione), che è la malattia, congenita forse più che infantile, della sinistra italiana. Il Pd è nato per unire e quando è riuscito a farlo ha dimostrato di poter essere maggioranza nel paese. Quanto al campo largo, a mio modo di vedere è un’espressione equivoca. Di positivo ha la tensione unitiva, che era alla base dell’Ulivo e poi del Pd. Ma non rende chiaro ed esplicito che l’unità che si persegue è quella dei riformisti e non genericamente di tutti coloro che sono contro la destra, come fu, non con l’Ulivo, ma con l’Unione, che vinse ma poi non riuscì a governare…
Una domanda sulla identità del PD. Gli ultimi sondaggi lo danno in crescita, perché? E cosa manca al PD di Letta?
Il Pd è entrato in questo Parlamento come il grande sconfitto delle elezioni del 2018, vinte a mani basse dai due populismi, quello di Grillo e quello di Salvini, che non a caso hanno dato vita al primo governo Conte, il governo giallo-verde, il governo che voleva portare l’Italia fuori dall’euro, dall’Europa, dalla stessa solidarietà atlantica. Quel progetto, folle e velleitario, è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, a cominciare dalla negazione del principio di realtà. È stato a quel punto che il Pd è tornato in gioco, in quanto partito “degasperiano”, fedele ai principi costitutivi dell’Italia repubblicana, a cominciare proprio dall’europeismo e dall’atlantismo, nonché da un’aperta economia sociale di mercato. La pandemia e il grande piano “New Generation Eu” hanno fatto il resto. Al di là dei sondaggi, il Pd è tornato al centro del sistema politico, perché si è posto naturalmente come asse del possibile riformismo europeista italiano, prima col governo Conte2, poi con quello Draghi. Enrico Letta è un leader che ha tutti i numeri per incarnare questo ruolo centrale del Pd. Sondaggi e soprattutto risultati elettorali stanno dando corpo a questa prospettiva. La strada da fare è chiara, ma è ancora lunga e Letta penso sia il primo a saperlo.
Veniamo a Matteo Renzi. Che l’uomo sia uno spregiudicato giocatore di Poker lo sanno anche i sassi. Ora però ci sono i fatti: l’alleanza in Sicilia con uno dei massimi rappresentanti di quello che è stato il “berlusconismo rampante” (Micicché), l’andata a Riad proprio nel giorno della votazione (un segno brutto di sfrontatezza). Questi, insieme ad altri, sono segni di una volontà di sconfiggere il centrosinistra a partire dal Quirinale. Trova “meccaniscistiche” queste mie considerazioni?
Tutte le purtroppo numerose operazioni di scissione del Pd, da Rutelli a Bersani e D’Alema, fino a Calenda e Renzi, frutto anche dell’affievolirsi di quella forza centripeta che è alla base della esistenza stessa del partito “casa comune dei riformisti”, hanno certamente indebolito il Pd, senza peraltro dar vita a vere forze politiche nuove, in grado di insidiare il primato dem nel centrosinistra. Anche Italia Viva si è dimostrata una vicenda perlopiù interna al ceto politico, per così dire al “palazzo”, senza alcun reale rapporto con le dinamiche in atto nella società italiana. Come sempre, le operazioni di palazzo finiscono per compensare la loro inconsistenza in termini di consenso e radicamento sociale, con la spregiudicatezza nella manovra politico-parlamentare: una spirale di solito inevitabilmente regressiva. Il Pd non deve rispondere alle provocazioni, deve mantenere la mano tesa, anche perché ci sono elettori, prima e più che partitini e leaderini, da riavvicinare, rimotivare, riconquistare.
Una domanda sul centrodestra: sono proprio così uniti? Come può il centrosinistra mettere in evidenza le divisioni strategiche tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia?
Sono uniti come tre amici che vogliono partire insieme da Milano: ma uno, il più anziano, vuole andare a Bruxelles, un’altra a Budapest e il terzo non sa che pesci pigliare. Però si fanno fotografare alla Stazione Centrale, uniti e sorridenti. Il loro problema è che, come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, all’unità del centrodestra non crede più nessuno. Perché le divisioni tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, con in mezzo una Lega incerta e divisa, se non lacerata, tra Salvini e Giorgetti, hanno un carattere strategico, hanno a che fare con questioni di fondo, non con problemi di dettaglio. A cominciare dal rapporto con l’Europa, per finire con quello col governo Draghi: Berlusconi e i suoi al governo, insieme alla Lega di Giorgetti e dei governatori del Nord, Meloni fieramente all’opposizione e Salvini con un piede dentro e uno fuori. Il campo del centrosinistra, M5S di Conte compreso, è molto ma molto più frammentato, ma paradossalmente assai più unito sulle questioni fondamentali, a cominciare dal rapporto con l’Europa e col governo Draghi. L’unica speranza di unità, per il centrodestra, è considerare il governo Draghi come una parentesi e non come uno spartiacque. Una speranza che va in senso opposto agli interessi e ai sentimenti del paese e può dunque portare il centrodestra ad una sconfitta strategica. Anche per questo il Pd dovrebbe fare propria, in modo inequivoco, la lettura del governo Draghi come spartiacque, che cambia in profondità la politica italiana e non come una parentesi da chiudere quanto prima per tornare al “business as usual”: incuranti del fatto che lo “status quo ante” coincide con una competizione tra due schieramenti diversamente inadeguati alla complessità dei problemi dell’Italia. Solo proponendosi in modo netto ed esplicito come sostenitore e continuatore della discontinuità rappresentata dal governo Draghi, il Pd può candidarsi credibilmente alla guida del paese.
Parliamo del governo Draghi. Volendo fare un bilancio, per carità assolutamente provvisorio, come giudica il cammino percorso ? Ci sono stati errori? E come giudica l’atteggiamento del Sindacato nei confronti del governo?
Fin qui, il percorso del governo Draghi è stato privo di errori rilevanti e ricco di risultati importanti, sia sul fronte del contrasto alla pandemia e della campagna vaccinale, sia su quello della ripresa economica e della partecipazione italiana al piano europeo “New Generation EU”. Al momento, l’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello col più alto tasso di vaccinazioni e il più alto tasso di crescita economica. E tuttavia, la sfida non può ancora dirsi vinta. Sul piano sanitario, non siamo ancora arrivati all’immunità di gregge e difficilmente ci arriveremo se non si supereranno presto le ambiguità di alcune forze politiche, a cominciare dalla Lega, nei confronti del mondo no-vax. E sul piano socioeconomico, la ripresa in atto non si è ancora tramutata in aumento strutturale del tasso di crescita potenziale, condizione tra l’altro per rendere sostenibile nel medio periodo il nostro debito pubblico, gonfiato dall’emergenza pandemia. Perché ciò accada, sono necessarie le riforme e le riforme si fanno in Parlamento e richiedono il consenso delle forze politiche e dei gruppi parlamentari. Questo consenso al momento sembra essere più passivo che attivo. È come se le forze politiche, in particolare ma non solo di centrodestra, considerassero il governo Draghi una medicina amara da mandare giù, con la speranza di poterne presto fare a meno. Il governo Draghi come parentesi, invece che come spartiacque. La vicenda delle pensioni è emblematica. Piegando le resistenze della Lega e purtroppo anche della Cgil, Draghi ha ottenuto il superamento di quota 100, che nel 2022 diventerà quota 102. Ma non è ancora riuscito a costruire il consenso su cosa succederà nel 2023. A fine ‘21 non sappiamo con quali regole si andrà in pensione nel ‘23. È l’idea della parentesi che vuole scongiurare lo spartiacque. O, se si preferisce, è il morto che afferra il vivo. Speriamo che non sia questa la cifra del dibattito parlamentare sulla legge di bilancio.
Guardiamo a Mario Draghi. Lunedì Alan Friedman sulla Stampa di Torino ha scritto un articolo assolutamente lusinghiero nei confronti del Premier. Tanto da affermare che erano tanti anni che l’Italia non esprimeva una leadership così autorevole a livello mondiale. Forse Alan Friedman ha ragione. Si pone,però, il problema di dare continuità a questa leadership. Tanto che durante il G20 la stampa italiana rilanciava la domanda che facevano i leader politici di Usa e Europa: “cosa farà Mario?”. E’ un problema di non poco conto visto la prossima scadenza sistemica: quella del Quirinale. Dalla risposta a quella domanda dipenderà il futuro della politica italiana. Le chiedo: quale Scenario vede? Per il PD è meglio un Draghi al Quirinale? Oppure è meglio che continui l’opera da Presidente del Consiglio?
Il problema, a mio modesto avviso, non è “cosa farà Mario” da grande, ma che fine farà l’agenda Draghi. È penoso (e molto preoccupante) vedere che il centrodestra (di governo e di opposizione) si riunisce per candidare Berlusconi al Quirinale, mentre il centrosinistra cerca un nome sul quale convergere e Renzi non si sa de cha parte sta. Come se non si facesse parte della stessa maggioranza di governo. Come se si pensasse che non debba esserci alcun rapporto tra la maggioranza che sostiene il governo Draghi e quella che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. Come se si fosse dato per acquisito lo schema della parentesi, anziché quello dello spartiacque. Uno schema palesemente disastroso per l’Italia. Il Pd dovrebbe prendere l’iniziativa di un confronto nella maggioranza di governo per cercare insieme la soluzione di assetto migliore per “dare continuità alla discontinuità” rappresentata dall’agenda Draghi: in questa, ma anche nella prossima legislatura, posto che il programma di investimenti e di riforme previsto dal PNRR ha necessariamente una gittata pluriennale, che va ben oltre il mandato dell’attuale Parlamento. Se si aprirà questo confronto all’interno della maggioranza, si potrà ragionare insieme sullo scenario migliore e sulla persona da eleggere alla presidenza della Repubblica. Lo scenario migliore, nell’interesse del paese, è quello di una convergenza tra le forze politiche di maggioranza (aperta ovviamente anche all’opposizione) attorno alla figura di un garante super partes di un accordo di fondo tra avversari, per cui chiunque vinca le prossime elezioni politiche, non saranno messi in discussione i pilastri portanti dell’Agenda Draghi. Se così avverrà, non sarà troppo difficile individuare la persona più idonea e convergere sul suo nome.
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