Ha ragione Paolo Pombeni, il Pd è da tempo un partito in crisi. Una crisi elettorale, innanzi tutto: 33 per cento, al suo esordio, con Veltroni nel 2008; 40 per cento con Renzi alle europee del 2014; 19 per cento, ancora con Renzi, alle politiche del 2018. Da allora, il Pd ha cambiato tre segretari (Martina, Zingaretti e ora Letta), ma il livello del suo consenso è bloccato ad un deprimente 20 per cento scarso.
Giorgio Tonini, 19 gennaio 2021
Pombeni coglie dunque nel segno quando descrive il Pd (sull'Adige di mercoledì scorso) come un partito che «riesce sempre meno ad essere quello che un partito dovrebbe essere: un canale che travasa rappresentanza dalla società alla politica e viceversa». Ed è difficile smentire anche la drastica conclusione che Pombeni trae da questa analisi: «Il partito che ha sede al Nazareno è un club, appena un poco allargato, di professionisti della politica», preoccupati più degli equilibri tra le correnti e del potere delle sue oligarchie interne, che di aprirsi all'apporto di idee e personalità nuove, rappresentative dei circuiti sociali. Brutta situazione, per un partito che era nato come un luogo aperto, nel quale ogni carica doveva essere temporanea e contendibile, anche attraverso un utilizzo largo di strumenti di democrazia diretta come le primarie.
Pombeni affonda ancora di più la lama del suo ragionamento mettendo in evidenza la crisi dell'idea originaria, proposta e promossa da Veltroni, di un partito «a vocazione maggioritaria», largo, plurale e inclusivo, una sorta di partito-coalizione. Al posto di quel disegno, innovativo e ambizioso, mitragliato da una raffica di scissioni, a sinistra come al centro, che hanno dato vita alla solita italianissima sfilza di micro-partiti personali, si profila oggi la proposta di un «campo largo», definito da Pombeni «un assembramento di forze diverse che pretendono di rimanere distinte e alternative al Pd», che pare a sua volta rassegnato a questa mediocre prospettiva.Detto e sottoscritto tutto questo, resta il fatto, almeno apparentemente paradossale e clamoroso, che il Pd è, ormai da tempo, l'unica infrastruttura politica che regge le sorti del paese. Parafrasando Churchill, si potrebbe quindi dire che il Pd è il peggiore dei partiti politici italiani, eccetto tutti gli altri. È così da almeno dieci anni, da quel drammatico 2011, segnato dalla crisi finanziaria mondiale, dal rischio di default del debito italiano e dall'agenda Trichet-Draghi (presidenti uscente ed entrante della Bce), proposta all'Italia come condizione per ottenere l'aiuto dell'Europa. Quell'agenda, che prevedeva misure impopolari, come la riforma della previdenza che avrebbe poi avuto la firma della ministra Elsa Fornero, mise in difficoltà la coalizione di centrodestra, la Lega rispose no e il governo Berlusconi andò in crisi. Al suo posto, fu varato il governo Monti, col sostegno del Pd al posto di quello della Lega. Poi tre governi a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), non molto apprezzati dagli elettori, stando al malinconico 19 per cento raccolto dal partito alle elezioni del 2018. Molto apprezzati dagli italiani risultarono, al contrario, gli argomenti anti-Pd, anti-Draghi, anti-Euro e anti-Europa e perfino anti-Usa, utilizzati a piene mani dal Movimento Cinquestelle e dalla Lega Salvini, i due vincitori delle scorse elezioni politiche, che insieme diedero vita al governo giallo-verde, il primo governo Conte.
Pochi mesi dopo tuttavia, la nuova era del populismo al governo era già finita e, per i grillini prima e i leghisti poi, entrambi incalzati dal principio di realtà, cominciava la marcia di avvicinamento e di sottomissione al riformismo europeista e atlantico del Pd: pro-Euro, pro-Draghi e pro-Biden. Un Pd che, nel frattempo, portava due suoi esponenti, David Sassoli e Paolo Gentiloni, alla guida rispettivamente del parlamento europeo e della politica economica della Commissione. E anche grazie a loro riusciva a fare dell'emergenza Covid l'occasione per l'Europa di correggere decisamente la sua rotta, non certo negando il valore della stabilità finanziaria, ma riaffermando il primato dell'obiettivo della crescita e dell'occupazione, in un quadro di sostenibilità ambientale. Per tacere, come è opportuno fare, del ruolo svolto da due grandi presidenti della Repubblica, certo non estranei alla storia del Pd, come Napolitano e Mattarella.
Non convince quindi, tra le giuste critiche di Pombeni, quella secondo la quale il Pd non riuscirebbe «a darsi l'orizzonte di un disegno di ampio respiro e di lungo periodo avente ad oggetto il futuro di questo paese». E si sarebbe quindi accontentato di un destino da «partito radicale di massa», restringendo alla sfera dei diritti civili il suo campo d'azione. Proprio come i democratici americani e i socialisti europei, anche i democratici italiani sono convintamente impegnati sul terreno dei diritti civili. Ma non si tratta di un surrogato dell'assenza di visione su altri temi, quanto piuttosto di un aspetto della cultura politica democratica, legato da stretti nessi di coerenza con una precisa prospettiva di politica estera (atlantica, europeista, mediterranea), o economica e sociale (ambientalismo, laburismo, riequilibrio tra generi e generazioni, come fattori di crescita e di sviluppo).
Il corretto riconoscimento al Pd del grande ruolo svolto nel tenere l'Italia nell'alveo culturale e politico degasperiano (altro che continuità col Pci...), dunque di essere portatore di una visione «di ampio respiro e di lungo periodo», non attenua affatto, ma anzi aggrava, le responsabilità di noi classe dirigente diffusa del partito, per i ritardi e i veri e propri tradimenti nella realizzazione del disegno originario di «partito nuovo» che il Pd si era dato. «L'identità di un partito è la sua funzione» ripeteva in modo instancabile Alfredo Reichlin negli anni creativi della fondazione del Pd. La funzione che il Pd si è dato è quella di riunire i riformisti per rendere maggioritario in Italia il riformismo europeista. In concreto, questo obiettivo dovrebbe tradursi oggi nel rendere abitabile e invitante il Pd per chiunque si riconosca nell'agenda Draghi e nelle sue premesse politiche e radici culturali. Enrico Letta si è messo al servizio di questa scommessa. Non ci sono alternative alla determinata volontà di vincerla.