Ho seguito l'animata discussione politica di questi giorni ed in particolare l'attenzione che ha provocato la scelta del Patt di valorizzare la sua presenza in maggioranza regionale con l'assunzione di una responsabilità diretta all'interno della Giunta.
Giorgio Tonini, 22 marzo 2021
Chiunque in Trentino (e non solo) abbia avuto un ruolo politico, o anche soltanto una frequentazione con il mondo della politica, nella seconda metà del Novecento, conserva oggi qualche ricordo personale di Bruno Kessler. Ed è bello che "L'Adige" abbia deciso di mettere insieme questo album di famiglia. Operazione sentimentale, certamente, ma data la statura del personaggio in questione, anche operazione intellettuale e politica. Tuffo nel passato, altrettanto certamente, ma trattandosi di Kessler, anche, inevitabilmente, discorso sul presente e sul futuro.Partiamo dai ricordi personali, racchiusi per me in un decennio, quello in cui sono diventato trentino. Febbraio 1980, al Palasport dell'Eur, a Roma, c'era il Congresso della Dc. Quello del "preambolo", che mise in minoranza la sinistra interna e portò Flaminio Piccoli alla segreteria.
Come presidente della Fuci, la federazione degli universitari cattolici, allora ventunenne, ero ospite invitato, insieme ad altri fucini: a cominciare da Michele Nicoletti, che vedo ad un certo punto salutare in modo deferente un uomo tarchiato, dall'aspetto tutt'altro che regale.Ma chi era quel bovaro? gli chiedo dopo, ridendo. Era... Kessler! mi risponde emozionato. Quello, il famoso padre del Gianni? Faticai non poco a ricomporre la visione del Kessler in carne e ossa con l'immagine che me ne ero fatto conoscendo suo figlio e soprattutto con l'idea del personaggio che avevo imparato a stimare sentendone parlare negli ambienti nazionali. Ma quella era la classe dirigente politica italiana di allora: c'erano le figure aristocratiche, quasi ieratiche, alla Moro o Berlinguer; ma c'erano anche e soprattutto tanti figli del popolo, uomini (soprattutto) e donne (poche) che erano stati portati in alto dalla loro straordinaria forza di volontà e dal formidabile ascensore sociale rappresentato dai grandi partiti e dai grandi sindacati di allora.
Non tutti, perlomeno non tutti allo stesso modo, ma molti di loro credevano nella funzione del sapere, dell'istruzione, della cultura. Perché solo imparando le famose mille parole di don Milani erano riusciti a liberarsi da un destino di miseria e soprattutto di subalternità. E perché solo studiando la società e i suoi problemi pensavano si potessero trovare soluzioni adeguate ad una realtà che andava facendosi via via più complessa. Questa era del resto, per molti di noi, la vera discriminante tra il "riformismo" dei cattolici democratici e il "moderatismo" della maggioranza del nostro mondo, nella Dc come nella Cisl o nell'Azione cattolica: pensare e progettare il futuro, mobilitando le energie innovative e creative della società, con apertura mentale e curiosità intellettuale, oltre che rigoroso rispetto delle competenze, o invece amministrare il presente, accontentandosi della gestione di un potere fine a se stesso.
Gli anni Ottanta del secolo scorso si chiusero col riformismo sconfitto sia nella Dc che nella Cisl e nelle organizzazioni cattoliche in generale. La politica bloccata nel "pentapartito", fondato sul patto immobilista tra Andreotti, Forlani e Craxi, proprio mentre, con la caduta del muro di Berlino, la storia si rimetteva a correre. Un contrasto che provocherà nel paese la crisi di sistema del decennio successivo. A Roma per i riformisti erano tempi duri e forte diventava la suggestione di ripartire dai territori. Fu allora che ebbi da Trento la proposta di andare a dare una mano al riformismo dei kessleriani. Nel campo decisivo della scuola e della cultura, allora affidati al giovane assessore Tarcisio Grandi. A Trento, qualche anno prima, mi ero sposato e ripartire da un territorio autonomo, dotato di ingenti risorse finanziarie e soprattutto istituzionali era un'alternativa affascinante all'aria di fine regime che si respirava a Roma.
I rapporti con Kessler in quella stagione furono intensi, ma purtroppo brevi. L'ultimo ricordo che ho di lui è di nuovo a Roma. Ci incontriamo, casualmente, per strada, in centro, in una delle vie tra la Camera e il Senato. Ci salutiamo di corsa e lui mi dice, allontanandosi: «Zércheme a Trent, che g'ho da parlarte». Sono trent'anni che mi chiedo su cosa volesse confrontarsi con me. Certo non sarebbe stato su qualche piccineria. Kessler era uomo di potere, ma era anche e soprattutto, per dirla con Andreatta, "capace di visione". Non nel senso che gli piacesse inseguire libri dei sogni. Al contrario, Kessler era un uomo che pensava la politica come strumento concreto, concretissimo, di cambiamento sociale. Riformare significa del resto dare una nuova forma alla realtà, trasformare la realtà a partire dal pensiero. Restando coi piedi per terra, perché il riformismo è il punto d'incontro, mai facile da trovare, tra idealismo e realismo. Mi piace pensare che è di questo che avrebbe voluto parlarmi, mentre sentiva la vita sfuggirgli: come dare un futuro al riformismo, in Trentino e in Italia. In modo nuovo, coraggiosamente innovativo, rispetto a un mondo che stava ormai morendo. Mettere insieme i riformisti, per farli diventare finalmente maggioranza del paese e non più minoranze interne alle diverse tribù ideologiche. E non chiudere il Trentino nel mito autarchico del "riformismo in un solo territorio", a quel punto inevitabilmente "piccolo e solo", ma proiettarlo su una scala più ampia, nazionale ed europea. Anche sul piano politico