«Non è tempo di congressi», ragiona Piero Fassino, presidente della Commissione Esteri e definisce il dibattito nel Pd «autoreferenziale». «Il gesto di Zingaretti serva a responsabilizzare. Con Draghi cambierà tutto».
"Corriere del Trentino", 5 marzo 2021
Piero Fassino, dirigente di lungo corso della sinistra italiana e presidente della Commissione Esteri della Camera, incrocia la densa storia del Partito comunista italiano con i fatti di cronaca. L’elogio di Longo si confonde con la crisi del Pd aperta dalle dimissioni del segretario Zingaretti, la rilettura in filigrana del passaggio dalla strategia rivoluzionaria a quella democratica del Pci con le sfide poste dal governo Draghi al sistema politico nel suo insieme. Oggi, nella piazza virtuale del Pd del Trentino (pagina Facebook, ore 18) presenterà il suo libro «Dalla rivoluzione alla democrazia. Il cammino del Partito comunista italiano 1921-1991» (Donzelli, 19 euro).
Fassino, l’attualità incombe. Il segretario del Pd Zingaretti è stato criticato per la gestione della crisi del governo Conte. E ora si dimette. Lei con chi sta?
«Credo che la linea seguita da Zingaretti nella crisi del governo Conte sia stata obbligata. Se il Pd non avesse difeso con chiarezza Conte non sarebbe nato il governo Draghi perché una nostra presa di distanza da Conte sarebbe stata vissuta dal M5s come un diniego dell’esperienza comune. Saremmo andati ad elezioni anticipate. Quando si è dimostrato che la via del Conte ter non era più praticabile abbiamo accolto l’appello di Mattarella».
Nel partito e anche nei territori, a partire dal governatore emiliano Bonaccini e dai sindaci di alcune città del centro e del nord, diversi hanno chiesto un congresso. Tanto che è emersa anche un’ipotesi di candidatura alternativa alla guida del partito proprio nella figura di Bonaccini.
«Penso che la vita di un partito sia caratterizzata da un confronto di idee e non mi spaventa. Non credo nemmeno che l’intenzione di Bonaccini come di altri sia quella di destabilizzare il partito. Ma in questo momento la priorità è il sostegno al governo Draghi e la riorganizzazione del campo progressista perché questa nuova fase implica una ristrutturazione del sistema politico. Il dibattito nel Pd di questi giorni è apparso autoreferenziale. Il gesto di Zingaretti, con cui non ho ancora parlato, credo serva a responsabilizzare tutti i dirigenti».
Dunque, boccia l’idea di un congresso adesso?
«Celebrare un congresso in pieno Covid-19 mi pare oggettivamente complicato».
Un passo indietro: il governo Draghi è davvero una ripartenza o un esautoramento del sistema politico?
«Alla fine del governo Draghi non torneremo al punto di partenza perché, come dicevo, implica una ristrutturazione del sistema politico. Si apre una fase riformista e costituente, come ha segnalato anche Giorgio Tonini. Il centrosinistra e il centrodestra non saranno più quelli di prima e il Pd ha il compito, con Leu e M5s, di riorganizzare il campo progressista. Lavorare per il successo del governo Draghi è, inoltre, nell’interesse del Pd perché il suo programma, a partire dall’europeismo, coincide con le nostre idee. Quando Mattarella ha avviato questo percorso si è richiamato al valore primario dell’interesse generale. È un valore espresso dal Pci come dai grandi attori politici della Prima repubblica, un punto di contatto con quella storia».
Fassino, lei quando si è iscritto al Pci?
«Nel 1968, all’indomani della condanna da parte del Pci dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia. Ho condiviso e apprezzato quel gesto tanto che il segretario Longo andò a Praga per sostenere Dubcek. Mi sono iscritto alla 31esima sezione di Torino intitolata a Gaspare Pajetta, fratello di Gian Carlo, che morì da partigiano ucciso dai tedeschi».
Rimarca il ruolo di Luigi Longo che spesso è una figura lasciata in secondo piano rispetto ad altri leader storici.
«Longo non aveva il carisma di Togliatti o Berlinguer. Non era un oratore brillante, anzi il suo eloquio era piuttosto noioso. Ma era un uomo di grande intelligenza politica e nella storia del Pci si ritrova in tutti i passaggi più delicati, senza considerare che fu uno dei capi della Resistenza. Quando Togliatti muore pubblica il memoriale di Yalta. Nel ‘68 si schiera con la Cecoslovacchia contro l’Urss, mentre nel ‘56 il partito non ebbe lo stesso coraggio di fronte all’invasione dell’Ungheria. E sempre nel ‘68 apre alla contestazione studentesca».
Qual è il suo «segretario»?
«Sentimentalmente e politicamente sono legatissimo a Berlinguer, sono uno dei suoi ragazzi. E poi Achille Occhetto che ebbe il merito di superare la storia del Pci».
Però tardivamente, scrive.
«Sì tardivamente, è l’esito della teoria di Berlinguer che auspicava una “terza via”, quella di un comunismo democratico. E la sua critica sferzante all’Unione sovietica, il discorso che fece a Mosca nel 1977 di fronte a dirigenti sconcertati all’idea della democrazia come valore universale fondamentale, erano mossi dall’idea di stimolare un processo riformista. Ci provò Gorbaciov dimostrando che il Pcus era irriformabile».
Anche in Trentino ci fu un contraccolpo...
«Sì e me ne occupai io che fu spedito a Trento tra il 1989 e il 1990 a ricucire una crisi profonda. Feci davvero tanto viaggi verso il Trentino».
E se nel 1948 avesse vinto il Pci?
(ride) «Non lo so, la storia non si fa con i se. Però sulla base degli accordi tra potenze alleate l’Italia apparteneva alla sfera di influenza delle potenze occidentali. La lucidità di Togliatti ne avrebbe tenuto conto così come accaduto con la svolta di Salerno o con lo stop ai tentativi insurrezionali dopo l’attentato da lui subito».
Dal Pci al Pds, poi i Ds e ora il Pd. Qual è l’eredità?
«Il Pci era un grande partito di massa, anzi mise a punto la forma più compiuta poi mutuata da Dc e Psi. Con una base associativa di due milioni di militanti e «una sezione al fianco di ogni campanile» come recitava uno slogan dell’epoca. Un partito con un sistema collaterale e di organizzazioni sociali che gli consentivano un rapporto di osmosi con la società, una grande scuola di formazione (il mito delle Frattocchie) e un editore importante (Editori riuniti). Aveva un obiettivo: rendere i cittadini protagonisti attivi nello Stato. Ora questo modello si è interrotto con la fine della Prima repubblica ma i partiti azienda, digitali e populisti che si sono susseguiti hanno reso il cittadino solo un destinatario passivo di messaggi. Un partito deve respirare con la società, certamente con le forme e i linguaggi contemporanei. Questo è un primo lascito. E poi direi i valori di giustizia sociale, uguaglianza, parità di genere che il Pd deve rappresentare»