La storia dello sport è macchiata da innumerevoli truffe, a volte da parte di singoli atleti o gruppi, altre volte attraverso vere organizzazioni statali.
Perché lo sport muove un grande business e può avere una portata politica, di immagine. La lotta al doping è stata caratterizzata nel tempo da un’alternanza tra connivenze e reazioni spesso simboliche, ed il sistema oggi ha molte ombre.
Luca Zeni, 19 febbraio 2021
La normativa antidoping è rigorosissima, e anche il semplice appassionato deve essere attentissimo per evitare che l’assunzione involontaria di sostanze proibite porti a conseguenze molto rilevanti, come ho avuto modo di constatare anche come avvocato difendendo alcuni atleti coinvolti. Molto spesso assistiamo all’atleta “positivo” che si professa innocente, e di solito scrolliamo la testa con disappunto.
Ma la vicenda di Schwazer scoperchia un sistema, ed è clamorosa. Dopo una prima positività confessata, si affida al preparatore più scomodo di tutti, il dottor Donati, inviso al sistema per le sue battaglie contro il doping senza compromessi. Donati non ha avuto paura di denunciare situazioni gravi e incoerenze di una rete di controllo spesso autoreferenziale e connivente (sotto riporto una sua intervista del 2016).
Quando nel 2016 Schwazer è stato trovato positivo per la seconda volta in molti che conoscono il mondo dello sport si sono sorpresi, hanno intuito che qualcosa non tornava.
Che la presenza di Donati rendeva credibile la manipolazione, proprio per colpire lui. La decisione del GIP di Bolzano è clamorosa e pesantissima: “Si ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina sono stati alterati allo scopo di farli risultare positivi”; Wada e Iaaf “hanno operato in maniera totalmente autoreferenziale non tollerando controlli dall’esterno fino al punto di produrre dichiarazioni false”.
Parole, quelle scritte dal GIP, che imporrebbero non soltanto l’immediata revisione della squalifica di Schwazer, ma una profonda riforma del sistema antidoping.