Nonostante negli ultimi due anni la giunta Fugatti abbia più volte rassicurato rispetto alla volontà di preservare un sistema sanitario solido - con tanti aspetti da migliorare, ma solido - ora con un emendamento in finanziaria smantella tutto, proponendo il modello già soprannominato “dell’ospedalino diffuso”.
Luca Zeni, "Trentino", 14 novembre 2020
Vediamo di cosa si tratta.
Storicamente i piccoli ospedali sono stati un presidio vitale, spesso l’unico riferimento sanitario, insieme al medico di famiglia. In epoche con collegamenti difficili e distanze lunghe da percorrere, dovevano essere in grado di fornire alla persona assistenza a 360 gradi.
Poi il mondo è andato avanti, anche in Trentino le distanze tra territori si sono ridotte, la demografia e i bisogni di assistenza sono cambiati, la medicina ha innovato i sistemi di cura e, di conseguenza, i modelli organizzativi.
Per questo, nel corso del tempo, in medicina si è sempre più rafforzato il concetto di “rete”. È la rete, unita alla specializzazione e alla casistica, che consente la qualità.
Facciamo un esempio concreto, partendo da una situazione di emergenza. Pensiamo ai casi di infarti e ictus, o ai politraumi. Un tempo la persona colpita veniva portata nell’ospedale più vicino. Però la complessità dell’intervento obbligava comunque a trasferire il paziente in un ospedale grande, in grado di intervenire con maggiore qualità. Ma intanto si perdeva tempo. Da quando è stato messo in rete il sistema, in particolare con l’elisoccorso, quel tipo di paziente viene subito portato al Santa Chiara. Risultato: i morti sono dimezzati!
Stesso concetto se si deve affrontare un intervento oncologico, o comunque complesso: l’importante non è essere a venti chilometri invece che a settanta, ma avere la migliore qualità possibile, e questo può avvenire soltanto nelle strutture che hanno un’alta casistica.
Questo è un concetto chiave in sanità: più casi vengono trattati da un’equipe, una struttura, un medico, più questi sono bravi. È un dato di fatto non in discussione.
Tanto che ci sono degli indicatori che lo dimostrano: gli esiti, i risultati, vale a dire quanti pazienti vivono o muoiono, dipendono da quanti casi gestisce quella struttura.
Allo stesso modo, ci sono una serie di servizi sanitari che devono assolutamente essere erogati vicino a casa, senza costringere le persone a spostarsi. Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di chiudere gli ospedali esistenti, essenziali per gestire molti servizi. Pensiamo ai pronto soccorso per le urgenze meno complesse, alla gestione dei pazienti cronici, alle visite ambulatoriali, alle operazioni complesse secondo una logica di specializzazione e in rete, magari incentivando i medici a non rimanere fissi in un’unica sede.
Ogni ospedale deve poi essere aperto al territorio, che in sanità non significa “aree geografiche di periferia”, come sembra pensare qualche illustre esponente politico: territorio è tutto quello che c’è fuori dall’ospedale! Ecco allora l’importanza di lavorare sulle aggregazioni dei medici di medicina generale, sull’infermiere di comunità, sulle strutture intermedie post degenza, sulla telemedicina, sull’integrazione tra ospedale e territorio, sull’integrazione sociosanitaria.
Ma se siamo consapevoli di questo, l’organizzazione non può essere a compartimenti stagni: deve “lavorare per processi”, deve seguire le esigenze del paziente, garantendo in ogni fase la migliore qualità, e non basarsi sulla logica del muro fisico dell’ospedalino indipendente e generalista.
Questo non vuol certo dire che vi siano un modello perfetto e uno totalmente sbagliato.
Un modello orizzontale, organizzato per processi, è molto più impegnativo da attuare, e necessita di una costante attenzione, di persone preparate, di continuo monitoraggio e degli aggiustamenti necessari, ma può portare a risultati molto migliori nei servizi ai cittadini.
Se qualcosa non funziona, lo si migliori. Se molte scelte sono in stand-by da mesi, come l’assegnazione di primariati importanti e il miglioramento del rapporto tra le unità operative di molte specialità, non dipende dal modello, ma dalle mancate indicazioni programmatorie della politica, che forse deve chiarirsi rispetto al ruolo che avranno le Università esterne coinvolte nel progetto della facoltà di medicina, in particolare rispetto a come si intenderà soddisfare le loro aspettative sui primariati, e quindi sul rapporto tra Azienda Sanitaria e Università.
Così, per esempio in ortopedia, i problemi in questo momento non dipendono dal modello organizzativo, ma dal fatto che da febbraio a Trento mancano un primario e un capo dipartimento.
Si deve avere chiaro l’obiettivo. Se non si è in grado di gestire un’organizzazione complessa, allora spezzettare e avere un referente generico è più rassicurante: se servono tre bisturi e quattro camici, forse ogni operatore saprà con più facilità dove inviare la richiesta.
Il sistema però lo possiamo migliorare solo guardando in avanti, non riapplicando modelli di 40 anni fa ormai superati dalla storia.
Se puntiamo a migliorare la qualità dei servizi sanitari, dobbiamo rafforzare la capacità di lavorare in rete del sistema, anche se è più impegnativo per chi deve organizzare, anche se costringe i professionisti a confrontarsi e a mettersi in gioco.