La riforma del titolo V è tornata in auge. Lo Stato accentratore va fermato. È un coro sempre più esteso quello che sale dalle pagine dei giornali e dai talkshow televisivi, a sostegno di una ridefinizione del titolo V della Costituzione a sfavore delle Regioni e delle Autonomie speciali. Non è una novità, già la riforma Renzi ci aveva provato, ma questa volta il Covid sembra offrire un nuovo pretesto a sostegno del ridimensionamento dei poteri delle Regioni.
Roberto Pinter, "Corriere del Trentino", 13 novembre 2020
Difficile infatti non cogliere l’esercizio scomposto delle competenze regionali e perfino comunali in materia di sanità, scuola, mobilità, commercio. Provvedimenti disuguali per territori simili non sempre supportati da dati sanitari diversi e talora ritardi nell’intervenire che hanno facilitato la pandemia. E i continui scaricabarile e rimpalli di accuse, con i governatori che talora hanno assunto un ruolo sopra le righe, sia nel bene che nel male. Eppure non sono convinto che questa sia la sola chiave di lettura: in alcuni casi solo le Regioni hanno saputo reagire alla diffusione della pandemia, supplendo alla mancanza di decisioni da parte del governo, anche con il coraggio di sperimentazioni che hanno poi raccolto il consenso della popolazione.
Si possono comparare vantaggi e svantaggi nell’esercizio delle competenze regionali e autonomistiche, ma certamente l’efficienza e la tempestività delle misure del governo non sono sempre state tali da non permettere di assolvere o condannare le Regioni al pari del governo. Facile citare gli sproloqui di De Luca e le commistioni di Fontana o perfino le uscite di Fugatti, ma non sono da meno le esternazioni dei ministri, i palesi conflitti quotidiani all’interno del governo che hanno differito nel tempo provvedimenti che sarebbero risultati più efficaci se adottati quando risultavano necessari.
Preoccupa allora il tentativo di sostituire il senso comune che riconosce negli enti locali la migliore risposta ai bisogni di cura (sanitaria e sociale), con quello che vede nello Stato e nell’accentramento la migliore garanzia di prestazioni uguali per tutti. Autorevoli opinionisti, e a dire il vero anche parlamentari con proposte di legge, sostengono l’esigenza di rivedere il titolo V a favore dello Stato, per favorire una migliore politica di contrasto al Covid e per superare le differenze di sviluppo dei territori. La riforma del titolo V (ai tempi del centrosinistra) è risultato un compromesso indigesto tra istanza federalista e conservazione statale, con le decine di competenze non esclusive e dunque perenne oggetto di contenzioso, e questo conflitto non è «naturale» o non lo è nella frequenza oggi conosciuta. Quindi prima di tutto andrebbero ripartite le competenze rendendo chiaro che la sussidiarietà non comporta confusione, anche se è giusta la compartecipazione. Inoltre il Covid non era previsto in Costituzione e dunque non ci si è preoccupati di chiarire che le competenze in materia di igiene e sanità, intesa non come organizzazione ma come prestazioni di cura e prevenzione da garantire a tutti a prescindere dal territorio di appartenenza, spetta allo Stato e spetterebbe a dire il vero all’Europa e alle istituzioni mondiali per evitare il disastro compiuto in nome della libertà dell’economia. Peraltro più che le norme che glielo permettessero al governo è mancato il coraggio, e quando lo ha avuto è stato premiato dai cittadini bisognosi di certezze. Semmai andrebbe fatta una riflessione sul taglio nazionale delle risorse sanitarie e sulla privatizzazione scelta da alcune regioni . Ma quello che non mi convince è l’idea che la sussidiarietà andrebbe compromessa per poter così superare gli squilibri territoriali, e per questo si rivendica la clausola di supremazia. Potrei ricordare che lo Stato ha avuto a disposizione qualche decennio per attuare politiche di riequilibrio territoriale, ma abbiamo visto che non lo ha fatto o se lo ha fatto non ha funzionato. Con la leva fiscale e i fondi europei può farlo quando vuole, così come può fissare i livelli di prestazione minima che devono essere garantiti a tutti i cittadini.
La storia del regionalismo dice che ci sono state Regioni e Province autonome, che in ragione dello sviluppo economico o della propensione all’autogoverno hanno sostenuto innovazione e raggiunto risultati di qualità nei servizi, nella formazione e nel nostro caso anche nella cura del territorio, che mai sarebbero stati raggiunti dalla burocrazia statale. Non a caso la previsione di una autonomia differenziata risponde alla preoccupazione che uguali competenze siano esercitate in modi diversi e talora inefficienti, ma affermare che l’accentramento è sinonimo di efficienza è ,almeno per l’italica esperienza, una bugia. Solo la sussidiarietà, cioè l’esercizio responsabile ed efficace delle funzioni al livello più vicino possibile ai cittadini potrà garantire il miglior risultato. Senza le risorse attivate dall’associazionismo, dai Comuni, dalle Regioni, saremmo risultati ancor più perdenti rispetto al Covid. Guai ad affidarsi solo alla burocrazia e alla tecnocrazia, solo la partecipazione, la responsabilità di ciascuno,la conoscenza del territorio e delle persone possono assicurare le migliori risposte. Non si tratta allora di contrapporre lo Stato alle Regioni, nè l’Europa alle nazioni, ma di lavorare insieme nel modo più efficace ma anche più partecipato. Mi auguro che si rimettano nel cassetto i propositi statalisti e si provveda invece a valorizzare le autonomie locali, chiarendo però chi fa cosa al fine di evitare scaricabarili, protagonismi personali, e deresponsabilizzazione.