Il riformismo è la realizzazione del bene possibile. E ha due nemici: uno è il populismo, l’altro è il benaltrismo, abile camuffamento del conservatorismo: c’è sempre un bene più grande e impossibile in nome del quale dire No al piccolo bene possibile. La riduzione dei parlamentari nazionali a 600, in linea con tutte le grandi democrazie europee, è un piccolo bene possibile, al quale credo si debba dire di Sì.
Giorgio Tonini, "Il Foglio", 1 settembre 2020
Da riformista non ce la farei proprio a votare contro una riforma giusta, per quanto piccola e imperfetta. Non si spezza la canna incrinata. Si fa quello che si può, nelle condizioni date e nel tempo che ci è dato vivere. Poi (ri)proveremo, ancora una volta, a superare il bicameralismo paritario, che è la vera riforma del parlamento. Una riforma che il Sì non ci regala, ma rende meno impossibile del No.
Ma insieme al benaltrismo, come ha scritto il direttore Cerasa, c’è anche tanto populismo, più o meno inconsapevole e involontario, nel No sostenuto in nome dell’antipopulismo. Innanzitutto nei toni: alti, arrabbiati, allarmistici. Perentori nel giudizio sul Sì, che diventa subito morale, pre-razionale. Non contano gli argomenti, che possono essere confrontati con razionalità, laicità, rispetto reciproco. Si passa subito alla sentenza morale.
“Che delusione Giorgio”, mi ha scritto una mia vecchia amica, commentando un mio post per il Sì. Come se le avessero detto che rubavo o tradivo la moglie. Nessuna curiosità intellettuale: perché una persona che conosco da decenni e che stimo si sta orientando in modo diverso dal mio? Niente, scatta subito l’anatema. “Vergognati”, mi ha scritto qualcun altro. Ma giudicare invece di capire è uno dei capisaldi teorici e pratici del populismo. Come il rifiuto della mediazione e del compromesso. E in effetti, votare Sì significa accettare la logica della paziente ricerca dei possibili punti d’incontro, se vogliamo (come in questo caso) del minimo comune denominatore.
Vuoi mettere con la nettezza del No, magari “senza se e senza ma”, altro slogan populista che fa subito scattare l’applauso nervoso, aggressivo, liberatorio. Paradosso dei paradossi: la pedagogia della democrazia parlamentare sta costringendo i populisti a evolvere, a cambiare il loro giudizio sull’Europa, ad accettare almeno in via di principio la cultura delle coalizioni, dunque il terreno del compromesso politico e programmatico, ad abbandonare i miti della purezza antropologica e quelli rousseauiani della democrazia diretta, a fare propria una bandiera da decenni sventolata dai riformisti come la riduzione del numero dei parlamentari, in nome di un parlamento più autorevole ed efficiente; e mentre succede tutto questo, che è ancora poco, ma non è affatto niente, una parte non sappiamo quanto estesa, ma certamente significativa dei riformisti rincula in una posizione che punta ad assecondare la naturale propensione ad essere “contro” che da anni affligge un paese frustrato, arrabbiato e smarrito come il nostro.
Immancabile l’ANPI, ovviamente “a difesa della Costituzione nata dalla Resistenza”, e quindi chi vorrebbe ridurre i parlamentari è iscritto d’ufficio al nazifascismo. Sono spuntati perfino i “cattolici per il No”, quasi fossimo al referendum sul divorzio. Fino all’apoteosi del paradosso: l’appello al popolo a difesa del parlamento contro il parlamento. Per l’ennesima volta si chiama il popolo a bocciare una riforma approvata da una larga maggioranza parlamentare. Opponendo alla visione riformista del parlamento che è alla base della riforma (meno parlamentari, più autorevoli e anche per questo ben retribuiti), una visione clamorosamente populista: Camere pletoriche, composte di deputati e senatori pagati di meno (tagliate le indennità invece dei seggi, è il mantra populista degli anti-populisti immaginari), in un trionfo di assemblearismo che perpetua l’anomalia italiana.
Già, perché 1000 parlamentari in Europa non ce li ha nessuno. E non siamo stati noi riformisti, da sempre, quelli che dicevano che dobbiamo rendere l’Italia un paese più europeo?