Michele Nardelli, "Corriere del Trentino", 25 aprile 2010 Al Colle di Miravalle, dal quale ogni sera si espandono i rintocchi della Campana dei Caduti di tutte le guerre, s’incontrano centinaia di giovani chiamati dalla Consulta provinciale degli studenti per ricordare il 25 aprile.
“Resistenze – Liberazioni”: un titolo suggestivo, giustamente al plurale per darne un significato più ampio, oltre i confini nazionali.
E proprio qui sta il nodo. Sino ad oggi abbiamo associato parole come resistenza e liberazione al diritto dei popoli e delle nazioni di autodeterminare il proprio futuro. Di rivendicare la libertà da un’oppressione, dallo sfruttamento coloniale, dalla negazione di un’identità.
E’ questa la storia del Novecento. Le bandiere che sventolano su questo colle, rappresentano – nel dolore che sono costate – straordinarie istanze di libertà. Ma anche dell’altro. Stati che si dicono in pace ma che riempiono i loro arsenali di armi di distruzione di massa. Stati che non hanno la loro terra e terre mai riconosciute come entità statuali. Paesi dove si è nati e nel frattempo scomparsi generando – insieme a nuove tragedie – nuovi stati e nuove bandiere.
«Nel 1996 a Coban, piccolo villaggio preindustriale dell’Alta Verapaz in Guatemala, trovammo alcune scatole di sardine “made in Jugoslavia”, nonostante questa fosse ormai scomparsa da anni. Ci colpì la scritta impressa sull’etichetta, nello spazio destinato alla data di scadenza del prodotto, subito sotto il marchio di fabbrica: Rok trajanja neograničen, “durata illimitata”. Trovammo stupefacente e surreale che delle scatole di conserva potessero durare più a lungo del loro paese d’origine.»
Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani, 1999
Devo dire che oggi queste bandiere – vecchie o nuove che siano – appaiono ai miei occhi come testimoni di un secolo che vorrei mettermi alle spalle. Un secolo che – per la cronaca – ha inaugurato la morte industriale simboleggiata dalla scritta “Arbeit mach frei” che campeggiava all’ingresso del campo di Auschwitz e che ha visto cadere in guerra un numero di persone tre volte superiore ai morti in guerra di tutti i 19 secoli precedenti. “Questo è il secolo degli assassini” scriveva Arthur Rimbaud nelle sue Illuminazioni. Intravedendo quel che avrebbe prodotto la rivoluzione industriale applicata alla guerra.
Guerre. Nel nome di confini e di stati, di razze e di civiltà. Per impedire il ripetersi di tutto questo, nel 1942, in un’isola del Mediterraneo, venne scritto il manifesto di Ventotene. Proponeva un’idea di pace, l’Europa. Le due guerre mondiali avevano avuto come epicentro il cuore del vecchio continente, i loro stati più potenti e per questo Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed altri esuli proposero il federalismo europeo come progetto “sopra le nazioni”, sovranazionale. L’Europa come insieme di minoranze, dove nessuna nazione (per grande e potente) potesse rivendicare la propria egemonia sulle altre.
Dopo quasi settant’anni da quella straordinaria intuizione di pace, forse sarebbe il caso di dare piena cittadinanza a quel “manifesto” caduto nell’oblio. Ecco perché, in questo 25 aprile, vorrei che il pensiero andasse per un attimo all’Europa, a questo progetto incompiuto e guardato spesso con sospetto. Un progetto in difficoltà proprio perché gli stati nazionali – sull’onda della paura e dell’istinto alla chiusura – si guardano bene dal cedere pezzi della loro sovranità, tanto verso l’alto (Europa), quanto verso il basso (Regioni).
L’Europa come progetto politico sovranazionale. Che ha nel Mediterraneo la culla delle sue civiltà, delle sue culture, delle sue narrazioni, oggi ancora divise da una frattura fra oriente e occidente che chiede di essere risanata.
Così, parole come resistenza (alla barbarie) e liberazione (dai paradigmi del passato) possono diventare un progetto di cittadinanza europea e mediterranea, oltre le frontiere dell’ignoranza e della chiusura.