Giorgio Tonini, "Il Foglio", 22 aprile 2010
Il centrosinistra italiano non ha ancora elaborato, nell'ambito della sua cultura politica, una visione matura della leadership democratica.
Questa è una delle principali ragioni del suo svantaggio competitivo rispetto al centrodestra, che dal 1994 si fonda sulla leadership "monarchica" di Silvio Berlusconi. Pesa, in questo ritardo, l'eredità delle culture politiche della prima Repubblica, fortemente condizionate dal cosiddetto "complesso del tiranno". Ma pesa anche la diffidenza nei confronti del berlusconismo, che propone una visione della leadership di stampo più populista che liberale. E tuttavia, elaborare e praticare una moderna cultura della leadership democratica, che in tutte le grandi democrazie europee si fonda sull'identificazione della premiership nella persona del leader della principale forza politica del paese, è essenziale per il centrosinistra italiano, se vuole tornare a vincere e se intende dar vita non all'ennesima esperienza di governo fragile ed effimera, ma ad un duraturo ciclo riformista, quale l'Italia non ha mai conosciuto e del quale ha un antico e ormai disperato bisogno. Allo stesso modo, è essenziale per il futuro del paese l'evoluzione liberale della leadership del centrodestra, oggi non solo stressante per gli equilibri democratici, ma anche incompatibile con qualunque incisivo programma riformatore. Il successo della duplice scommessa dei due partiti "a vocazione maggioritaria", Pd e Pdl, è dunque decisivo per dare all'Italia il bipolarismo maturo che non ha mai conosciuto.
2. La Costituzione e il complesso del tiranno
La nostra Repubblica è nata in un contesto politico-culturale fortemente condizionato dal "complesso del tiranno", ovvero dal timore di una nuova dittatura, o quanto meno di una insufficiente capacità della giovane democrazia italiana di resistere a nuove spinte autoritarie. Si spiega così l'evidente dualismo, all'interno della Costituzione, tra la parte programmatica e l'architettura delle istituzioni.
Il secondo comma dell'articolo 3 assegna alla Repubblica niente di meno che il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Ma non si capisce chi possa perseguire un obiettivo così ambizioso. Certo non il governo, posto che l'ordinamento della Repubblica prevede contrappesi più pesanti del peso: il presidente del consiglio è solo un primus inter pares nell'ambito del governo e, a differenza della maggior parte dei colleghi europei, non può neppure nominare e revocare i ministri, tanto meno sciogliere le camere; il bicameralismo è perfetto e il governo non dispone in Parlamento di alcun potere formale di agenda, se non quello che gli deriva dalla decretazione d'urgenza e dalla questione di fiducia, delle quali non a caso si fa da sempre largo uso ed abuso; il presidente della Repubblica dispone di poteri di controllo sul governo più incisivi di quelli previsti negli altri sistemi parlamentari europei, così come forti sono le altre istituzioni di garanzia, a cominciare dalla corte costituzionale e dalla magistratura, autonoma dall'esecutivo anche nella funzione inquirente, per non parlare delle magistrature amministrative e contabili; è previsto il referendum abrogativo delle leggi e quello confermativo per le modifiche costituzionali approvate dalla sola maggioranza; le regioni dispongono di un'assai ampia, e recentemente ampliata, potestà legislativa.
La contraddizione tra il carattere fortemente "democratico" della prima parte e quello marcatamente "liberale" della seconda ha una radice squisitamente politica: De Gasperi e Togliatti si incontrarono su una linea ambiziosa, quanto agli obiettivi programmatici della Repubblica nata dalla comune lotta di liberazione, ma anche su una non meno forte reciproca diffidenza, che li indusse a convergere nell'impedire per via costituzionale alla futura maggioranza politica di prendere nelle sue mani troppo potere.
Uno dei più autorevoli padri costituenti, Giuseppe Dossetti, così spiegava nel 1984, in una intervista a Elia e Scoppola, il paradosso della Costituzione italiana: "La preoccupazione maggiore di De Gasperi era il fatto che il Partito comunista potesse diventare maggioranza. Il carattere eccessivamente garantista della Costituzione è nato lì". Non dissimile era peraltro l'atteggiamento di Togliatti, in particolare dopo la rottura, nel maggio 1947, del governo di unità nazionale e la messa all'opposizione del Pci, che il "Migliore" sapeva essere di lunga durata: "si cumulano i due garantismi - dice Dossetti - e producono la seconda parte della Costituzione... tutti e due per eccesso di paura dell'altro". La paura fu alla base anche della scelta del sistema proporzionale, nella versione più pura tra i grandi paesi europei.
3. L'eccezione degasperiana e la regola del governo debole
E tuttavia, le elezioni del 18 aprile 1948 produssero un chiaro e forte assetto di governo, che consentì all'Italia, uscita annientata dalla guerra, una rapida ricostruzione e pose le basi per il più grande balzo di sviluppo e di modernizzazione della sua storia. Le elezioni consacrarono la leadership di De Gasperi, che assunse nelle sue mani sia la guida del partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, sia quella del governo. Fu la prima e l'ultima volta che questa fusione delle due dimensioni della leadership si verificò in Italia: a parte brevi parentesi con Fanfani e De Mita, si dovrà aspettare, per rivederla, la vittoria di Silvio Berlusconi nel 1994.
Come scriveva nel 1970 Leopoldo Elia, nella voce "Forme di governo" dell'Enciclopedia del diritto, nella storia politica dell'Italia del dopoguerra si deve distinguere "tra un periodo 1948-1953 (o di parlamentarismo all'inglese), nel quale la leadership degasperiana risultava assai simile a quella accettata nel sistema britannico; e un periodo successivo nel quale il funzionamento delle istituzioni politiche si sarebbe avvicinato sempre più ai moduli della Quarta Repubblica francese". Con l'uscita di scena di De Gasperi, che col suo prestigio personale compensava i limiti del sistema politico-istituzionale, l'instabilità dei governi e la debolezza della leadership di governo diventano la regola della politica italiana. La stessa Dc viene consegnata ad un destino di direzione collegiale, a sua volta fattore di debolezza nel rapporto di coalizione con i partiti minori.
Un esito che l'Italia ha pagato caro. Certo, i governi deboli hanno evitato una più dura contrapposizione tra comunisti e anti-comunisti, scongiurando all'Italia uno scenario tutt'altro che improbabile di guerra civile. Ma l'altra faccia di questa medaglia è stata l'impotenza del governo. Come scrive ancora Elia, "l'incapacità della Democrazia cristiana di conferire uno status degasperiano a chi ha tentato con maggiori o minori titoli di raccoglierne la successione" ha impedito "quella accumulazione di autorità personale che è indispensabile per governare con efficacia in uno Stato contemporaneo".
L'instabilità dei governi e la debolezza della leadership sono parse sopportabili per il paese fino alla fine degli anni Sessanta, cioè fino a quando l'Italia ha potuto avvalersi di due potenti fattori di competitività: il basso costo dell'energia e il basso costo del lavoro. Facendo leva su questi due punti di forza, il nostro Paese ha potuto realizzare il suo "miracolo". Ma con gli anni Settanta, entrambi questi fattori vengono meno: tra il 1969 e il 1973, le rivendicazioni operaie portano al raddoppio del costo del lavoro e la guerra del Kippur a moltiplicare per quattro il prezzo del petrolio.
Per continuare a crescere, il paese dovrebbe far fronte a questi nuovi problemi attraverso riforme profonde. Ma la società italiana, con la politica debole che la guida, decide di non affrontarne nessuno. I costi del rinvio vengono scaricati sulla collettività, sotto forma prima di inflazione a due cifre (1973-1984), poi di abnorme crescita del debito pubblico (1984-1992).
4. La crisi del 1992 e la nuova domanda di leadership
La patologica debolezza del "potere di indirizzo" della politica italiana, viene surrogata con un'altrettanto abnorme espansione del "potere di nomina" esercitato dai partiti. E' la cosiddetta "partitocrazia": l'altra faccia del sistema politico italiano a multipartitismo estremo, la faccia "prepotente", quanto a occupazione del potere, speculare a quella "impotente", quanto a efficacia del governo. E l'occupazione parassitaria del potere produce un vero e proprio saccheggio delle risorse pubbliche, vuoi per le politiche di tipo assistenziale e clientelare, vuoi per la vasta espansione della corruzione.
All'inizio degli anni Novanta, il sistema politico italiano giunge così al punto di rottura. Con la fine della "questione comunista", sono venute meno le ragioni geopolitiche che avevano per quasi mezzo secolo reso indispensabile e insostituibile la coalizione di maggioranza attorno alla Dc. D'altro canto, quella stessa coalizione, minata nella sua credibilità dall'emergere di un diffuso e ramificato sistema di corruzione, appare strutturalmente inadeguata a far fronte alla vera e propria crisi finanziaria dello Stato italiano. Una crisi accelerata dal Trattato di Maastricht che, con i suoi rigorosi parametri per l'ingresso nell'Unione monetaria, ha privato l'Italia, in via permanente e definitiva, dei due strumenti tradizionalmente utilizzati dai governi per non affrontare con le necessarie riforme i gravi problemi di competitività dell'economia italiana: la svalutazione della moneta e il deficit di bilancio. Una crisi che rischia di portare ad una rottura della stessa unità nazionale, con le aree forti del Paese che, attraverso la Lega Nord, cominciano a parlare esplicitamente di secessione, di indipendenza della "Padania".
La crisi viene affrontata con l'espediente emergenziale dei governi "tecnici", mentre la politica, grazie alla spinta referendaria, si riorganizza su basi bipolari, sostanzialmente seguendo la linea di frattura interna alla Dc e alla vecchia coalizione di maggioranza: moderati dc e socialisti craxiani, aperti all'apporto del Msi e successivamente della Lega da una parte, sinistra democristiana, mondo laico-azionista ed ex-comunisti dall'altra. Questo ultimo schieramento appare subito vincente nei rami bassi dello Stato (comuni e province), rivitalizzati dall'elezione diretta di sindaci e presidenti. Ma non riesce ad esprimere una leadership nazionale, al contrario del primo, che trova in Berlusconi il punto di sintesi vincente: tra settori dominanti del vecchio sistema politico e spinte antipolitiche, tra pulsioni secessioniste della Lega Nord e timori del Mezzogiorno per la tenuta dell'unità del paese.
E tuttavia, il primato di Berlusconi nella competizione nazionale si fonda su una curvatura populistica, plebiscitaria, mediatica della leadership, che si rivela ripetutamente inadeguata ad affrontare, con le riforme, i problemi strutturali del paese: in continuità con la Prima Repubblica, i governi continuano ad usare la spesa pubblica (e l'evasione fiscale) come strumento di consenso, sforando sistematicamente i parametri di Maastricht ed entrando in crisi quando sono costretti a fermarsi. Dall'altra parte, il centrosinistra, incapace di darsi una leadership "degasperiana" in grado di sostenere un vero programma riformista, si coalizza attorno all'antiberlusconismo, e ad un composto instabile di cultura del rigore finanziario e conservatorismo di sinistra, che produce risanamenti provvisori della finanza pubblica, perlopiù attraverso l'aumento della pressione fiscale, e una strutturale incapacità ad allargare le basi del proprio consenso nazionale oltre le regioni tradizionalmente "rosse" ed oltre le categorie direttamente dipendenti dalla spesa pubblica: pensionati, studenti, pubblico impiego.
5. Leadership democratica e bipolarismo maturo
Il paese esprime la propria insoddisfazione e delusione per la qualità scadente del nostro bipolarismo, prima punendo per quattro volte di seguito la maggioranza uscente, ora mediante un massiccio aumento dell'astensione. E tuttavia, una rimessa in discussione del bipolarismo, oltre a non essere auspicabile, per le ragioni qui esposte, non sembra neppure prevedibile, come dimostrano gli esiti deludenti di tutte le "terze forze". La strada obbligata resta quella di una evoluzione del bipolarismo, lungo la via tracciata dal Pd delle origini e salutata allora come una svolta positiva per tutto il paese: da un lato, il completamento delle riforme costituzionali nel segno della "democrazia decidente", attraverso un'attenta ricalibratura del sistema dei pesi e contrappesi, in modo da rafforzare il peso del governo e in particolare del primo ministro, e rimodulando al contempo i contrappesi, attraverso uno statuto dell'opposizione e delle funzioni di garanzia; dall'altro, una riorganizzazione dei poli attorno a due grandi partiti "a vocazione maggioritaria", organizzati al loro interno in forma limpidamente democratica, anche attraverso l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione e una legge elettorale che ripristini il radicamento territoriale dei parlamentari.
Solo per questa via il centrosinistra potrà darsi una leadership di stampo degasperiano, ovvero al contempo di partito e di governo, come nella regola del bipolarismo europeo, e il centrodestra riuscirà a superare la torsione populista della sua leadership, in senso compiutamente liberale. Solo per questa via il paese potrà prendere parte ad una competizione tra proposte di governo in grado di affrontare i nodi di fondo che hanno fatto dell'Italia il paese d'Europa che da quasi vent'anni, in barba all'articolo 3 della Costituzione, cresce di meno, ha il più alto grado di disuguaglianza e il più basso di mobilità sociale. Se il dibattito all'interno e tra i due partiti maggiori riuscirà a svilupparsi lungo queste direttrici, i tre anni che la legislatura ha davanti potrebbero non diventare l'ennesima occasione perduta.