Due settimane fa ho compiuto 30 anni. Il 10 marzo 2020, il giorno dopo la firma del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 marzo 2020 “Io resto a casa”. Che giornata strana, difficile, quasi surreale per compiere 30 anni.
Sacha de Carli, "Logos News", 26 marzo 2020
Al mattino, in ufficio, i colleghi mi hanno dovuto fare gli auguri a distanza ed i pasticcini che ho portato sono stati mangiati a turno, badando bene di evitare contatti e di non contaminare con le mani vassoi e parti comuni. La mia famiglia l’ho sentita per telefono pur essendo a 10 minuti di distanza, mentre cena e brindisi con gli amici sono stati rinviati a data da destinarsi. Mi è pesato tutto questo? No, e nel modo più assoluto. Sono profondamente convinto che nella vita ci siano momenti importanti e momenti fondamentali-necessari, ed il momento che stiamo vivendo in queste settimane rientra a pieno titolo tra i secondi. Perciò, nonostante la ricorrenza, ho rispettato tutte le disposizioni previste dal Dpcm 9 marzo 2020 “Io resto a casa” prima e dai seguenti poi (NB: rientrando nel settore bancario io faccio parte di quella fetta di lavoratori che ha continuato ad assicurare i propri servizi alla popolazione), e ho dedicato un po' di tempo a metabolizzare ciò che sta accadendo nel nostro Paese.
Ma cosa sta accadendo?
Accade che l’Italia è seconda al mondo per numero di contagi dichiarati e prima per numero di morti e tasso di mortalità.
Accade che l’Italia è lo Stato che passa da tre focolai al fermo dell’intera penisola in tre settimane.
Accade che l’Italia è la nazione dei decreti disattesi, delle indicazioni non rispettate, delle cautele e delle precauzioni ignorate.
Accade che l’Italia è il Paese del mancato immediato contenimento, dello scarso senso civico dei cittadini, della dilagante disinformazione, della mancanza di disciplina, dell’incapacità di seguire con rigore e responsabilità semplici disposizioni, dell’ormai scomparsa cultura del dovere.
Accade che l’Italia è quella delle stazioni sciistiche che offrono ingressi scontati agli studenti a casa da scuola a causa del virus, dei giovani che non possono rinunciare alla movida, dei menefreghisti perché “tanto il virus attacca solo anziani ed immunocompromessi”, dei fenomeni che non hanno saputo rinunciare ad una sciata e che il giorno dopo l’emanazione del decreto “Io resto a casa” sono andati ad ammassarsi nuovamente per chiedere il rimborso dello skipass, dei depredatori di supermercati, dei fuggitivi della domenica sera che da Milano hanno pensato bene di esportare il virus in zone ancora non colpite, degli sciacalli che non perdono occasione per accusare “scuole chiuse ma porti aperti”.
L’Italia delle rivolte nelle carceri, dei negazionisti che sostengono che il coronavirus è soltanto un’invenzione del “sistema” e che ogni anno muoiono più persone per la normale influenza, dei paladini della libertà individuale che non accettano limitazioni imposte dall’alto, dei tanti pincopallino che due minuti dopo il discorso del premier Conte del 9 marzo già chiedevano: “Ma posso andare lì? E dall’altra parte?”.
L’Italia di quelli che pubblicano una bozza di decreto fregandosene delle gravi ripercussioni sulla popolazione soltanto per arrivare prima degli altri (per guadagnare), come di quelli che quella bozza se la fanno sfuggire, di quelli che prima il problema erano i 2 centesimi dei sacchetti dell’ortofrutta.
Accade che l’Italia è quel Paese in cui se dici che una cosa non va fatta, in molti la fanno lo stesso (anzi, probabilmente in numero maggiore di quelli che l’avrebbero fatta prima, per il fascino del proibito), e quindi devi CHIUDERE per evitare che quella cosa venga fatta.
Un’Italia, quindi, in questo caso, di potenziali e incoscienti assassini. Nessuna lungimiranza, ognuno preoccupato a pensare soltanto al proprio piccolo, “homo homini lupus” direbbe qualcuno, tutti a correre a depredare i supermercati, i negozi di alimentari e le farmacie prima degli altri, per essere più furbi degli altri, per assicurarsi il cibo, le mascherine ed i disinfettanti a discapito degli altri, perché prima viene l’IO e poi, se avanza qualcosa, vengono gli ALTRI.
La domanda, pertanto, sorge spontanea: SIAMO UN POPOLO DI STUPIDI? La risposta, altrettanto spontanea, potrebbe essere: forse. Magari in parte. Oppure siamo semplicemente ignoranti a causa di una sempre più dilagante politica della disinformazione. E allora, in quest’ultima ipotesi, se non siamo stupidi, quantomeno non tutti, perché facciamo comunque queste minchiate?
Il perché non va ricondotto ad una questione di intelligenza, per l’appunto, ma di mancanza di buona informazione. Se uno non sa cosa deve fare, fa delle minchiate. Se ora siamo in un contesto così drammatico è perché nessuno, almeno fino a poco tempo fa, si era reso conto della effettiva gravità della situazione che, sfortunatamente, è realmente grave (e lo sarà sempre di più finché ci sarà chi continuerà a dire che c’è di peggio, che si tratta di una banale influenza, che non sono ancora morte abbastanza persone per poterla chiamare catastrofe, legittimando di fatto l’idea che le disposizioni dei recenti decreti siano in qualche modo ingiuste ed esagerate e spingendo pertanto diversi a sentirsi liberi di non rispettarle). Ed inizialmente non ce ne siamo resi conto, lo ribadisco, non perché siamo stupidi, ma perché non siamo stati informati nella maniera corretta. Mi spiego.
Oggi lo strumento più utilizzato per reperire informazioni in modo agile, immediato ed autonomo è nelle tasche e nelle borse di quasi ognuno di noi: lo smartphone. Partiamo da quello. In una situazione per molti nuova come quella che stiamo vivendo e tenuto conto che la maggior parte di noi non ha specifiche competenze in ambito medico-sanitario, la prima cosa che siamo spinti a fare è cercare di capire cosa stia succedendo attraverso i media. Quindi estraiamo quella piccola enciclopedia portatile dalle nostre tasche e borse ed iniziamo a consultare i più comuni canali di informazione online (ahimè spesso attraverso i social).
Il problema è che lo smartphone come mezzo di informazione online ha dei grossi ed evidenti problemi.
1. Le fake news: negli ultimi anni siamo stati talmente tanto bombardati da notizie false, che il meccanismo opposto che si è sviluppato è quello di tendere a non credere più a niente. Perciò, se mi dicono che c’è un nuovo pericolosissimo virus potenzialmente letale che può contagiare il mondo intero, io penso che sia una delle solite sparate e semplicemente non ci credo.
2. La legge del profitto sopra ogni cosa: le piattaforme di notizie online devono guadagnare, più click = più soldi, quindi siamo costantemente soggetti a titoloni sensazionalistici creati per attirare l’interesse del lettore (il famoso “clickbait” o “clickbaiting” tradotto “esca da click”, in italiano “acchiappa-click”) e contenuti inesistenti, fuffa, le famose minchiate di cui sopra. Perciò, se mi parli per giorni della gente che si prende a botte nei supermercati e dell’Amuchina a cifre folli, ma non delle terapie intensive al collasso, diffondi panico e disinformazione e stai spostando il focus dal problema reale.
3. Il business: il core business dei mezzi di informazione online si basa sul presupposto che chi pubblica per primo guadagna di più, ed è così, per fare un esempio, che magicamente una sera di marzo una BOZZA di decreto viene pubblicata e data in pasto alla popolazione ignara ed impreparata, scatenando come conseguenza il panico generale ed un fuggi fuggi di persone impaurite che, scappando di corsa da una città che sarebbe stata di lì a poco isolata, hanno portato il virus nel resto d’Italia.
A causa di questa concezione del fare informazione, perciò, non viene spiegato che virus di questo tipo in passato (anche recente) hanno causato centinaia di migliaia di morti, non viene spiegato che la situazione è estremamente seria e che si deve intervenire subito per evitare il peggio, non viene spiegato che il virus non è il problema di per sé, ma il fatto che gli ospedali non ce la fanno a sostenere tutti quei malati insieme (perché nel frattempo le altre malattie ed emergenze non se ne sono andate in vacanza) e che il rischio è il crollo del sistema sanitario ed economico.
Poi, a rendere il tutto ancora più confuso e difficile da capire, si aggiunge la politica, arrivano i primi interventi. Discoteche chiuse ma ristoranti aperti, quindi non si può ballare insieme ma bere e mangiare seduti allo stesso tavolo sì, musei chiusi ma bar aperti, quindi non si può osservare insieme lo stesso quadro ma bere un caffè, una birra o un aperitivo appoggiati allo stesso bancone sì (però soltanto fino alle 18.00 perché il coronavirus è notoriamente un virus nottambulo), teatri chiusi ma negozi aperti e via discorrendo. Poi apri internet, ed inizialmente vedi solo foto di gente con sacchi e bottiglie di plastica in testa per proteggersi dal virus, o di maschere da sub, biancheria intima e ortaggi utilizzati a mo’ di mascherina, vignette riguardanti i cinesi e una nota marca di birra, video di gente che starnutisce e tossisce addosso ad altre persone, insomma, le solite minchiate. Infine, ciliegina sulla torta, ti dicono che non puoi più uscire e andare in giro a meno che tu non ti faccia un’autogiustificazione (autocertificazione) sì, come a scuola, e come a scuola è stato il conseguente abuso che ne è stato fatto.
Quindi, la reazione spontanea ed in parte legittima delle persone, è pensare che sia tutta una minchiata. Ed è così che in molti, troppi, hanno continuato a fare quello che facevano prima. Perciò, non è sempre una questione di stupidità, o non solo, ma di informazione.
Tutto questo fino a quando hanno iniziato a girare le immagini, gli interventi e le testimonianze di chi quella banale influenza la sta combattendo in prima linea negli ospedali e nelle strutture predisposte. Pazienti (anche giovani e giovanissimi) attaccati ad un tubo, vittime che non hanno potuto salutare i propri cari prima di morire se non attraverso un tablet, medici, infermieri, operatori sanitari e volontari che con i loro video, i loro messaggi e le loro richieste di aiuto, hanno reso tutto incredibilmente e drammaticamente più vero, reale.
Un sistema al collasso, messo in ginocchio dal numero e dalla concentrazione dei contagiati, dalla scarsità dei dispositivi di protezione adeguati reperibili, dall’esaurimento dei posti letto e dei macchinari necessari alla sopravvivenza dei colpiti e dalla mancanza di personale medico e paramedico sufficiente per fronteggiare l’emergenza. In mezzo a questo contesto critico, le crude interviste dei dirigenti delle strutture ospedaliere coinvolte, gli accorati appelli degli operatori sanitari che, in lacrime, invitano ad una maggiore presa di responsabilità, ad una maggiore consapevolezza ed a fare ognuno la propria parte, insieme alle recentissime immagini delle salme della città di Bergamo portate a cremare fuori dalla Regione perché lì non c’è più posto (il camposanto bergamasco non riesce più a gestire il numero troppo elevato dei feretri), hanno cambiato e stanno cambiando, drasticamente, la percezione del problema.
Così sono arrivati anche i provvedimenti più severi, si è capito che non era più il momento di scherzare, e le persone hanno iniziato ad impegnarsi, ad essere più consapevoli, ad aiutarsi, ed è uscita l’altra faccia dell’Italia, quella bella, quella del cuore, della solidarietà, della forza d’animo, del coraggio, della condivisione e del senso civico. È uscita la vera Italia.
L’Italia delle migliaia di donne e uomini del personale sanitario nazionale che stanno lavorando incessantemente da settimane per garantire la salute e la vita degli italiani (fino ad arrivare a perdere la vita come è successo tra gli altri a Roberto Stella, medico di base di Varese, ed a Diego Bianco, 47enne operatore della centrale 118 di Bergamo).
L’Italia che lotta, stremata, per curare e salvare TUTTI. L’Italia dei volontari della protezione civile, dei vigili del fuoco, dei farmacisti, di chi deve continuare ad andare in fabbrica, di chi lavora nei supermercati, dei tassisti che in queste ore accompagnano gratuitamente i medici in ospedale, delle forze dell’ordine e delle forze armate, di tutti loro, per gli sforzi straordinari che stanno compiendo.
L’Italia degli italiani, che in queste situazioni sanno dimostrare grande coesione, umanità, responsabilità ed un cuore unico. C’è chi canta, chi applaude, chi recita poesie e legge libri, chi racconta storie di tempi passati, chi condivide ricette, chi propone lezioni di fitness, chi insegna a suonare uno strumento, chi mette a disposizione le proprie competenze e le proprie passioni per regalare un momento di distrazione, di leggerezza, di calore, e per condividere un senso di vicinanza, di comunità e di unione in un momento difficile per tutti.
Ci sono i giovani che aiutano gli anziani a fare la spesa, gli studenti che organizzano raccolte fondi per le strutture ospedaliere ed i cittadini che a quelle e ad altre raccolte fondi stanno partecipando in massa.
Ci sono gli esercizi commerciali chiusi che regalano gli alimenti deperibili che sarebbero andati buttati, i tifosi dello sport che hanno devoluto i rimborsi dei biglietti delle partite annullate agli ospedali in difficoltà (vedi la curva dell’Atalanta per l’ospedale di Bergamo) ed i proprietari di case Airbnb che mettono a disposizione alloggi gratuiti per medici e personale ospedaliero.
Ci sono le piattaforme online di servizi a pagamento che hanno deciso di contribuire ad alleggerire la quarantena rendendo quei servizi temporaneamente gratuiti, i personaggi dello spettacolo, gli sportivi e gli imprenditori che hanno partecipato con ingenti donazioni e proficue campagne di raccolta fondi, le amministrazioni comunali, le istituzioni e le associazioni di volontariato che stanno facendo del loro meglio per non lasciare nessuno da solo, per aiutare e sostenere tutti.
Ci sono le comunità cinesi di tutta Italia che hanno chiuso per rispetto le proprie attività prima di tutti, già da febbraio, e che hanno donato un gran numero di dispositivi di protezione a privati e strutture ospedaliere.
Ci sono le persone che con grande senso civico, rispettando le indicazioni, si proteggono e proteggono gli altri. E c’è chi ride, sì, perché gli italiani, nonostante tutto, rimangono capaci di ritrovare il sorriso anche in situazioni come questa.
Sono tanti i lati negativi della comunicazione online e dei social evidenziati precedentemente, quanti i possibili risvolti positivi che questi strumenti possono rappresentare. E non soltanto perché permettono di fare scuola online, di visitare i musei chiusi attraverso dei simulatori o di assistere a esperimenti scientifici, concerti e contenuti di vario tipo in diretta streaming (vedi l’iniziativa “l’Italia chiamò” sviluppata dal MiBACT - Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo), ma perché è grazie a questi strumenti se oggi, condividendo difficoltà ed isolamento forzato, la grande sfida che stiamo affrontando ci può sembrare un po' meno pesante, perché è grazie a questi strumenti se oggi, per una volta, possiamo sentirci tanti piccoli fiori di un unico giardino. Stiamo riscoprendo l’umanità, forse, ma quanto ci sta costando.
È per questo motivo che mi auguro sinceramente che la tragedia che stiamo vivendo possa essere uno stimolo per riconsiderare alcuni aspetti per il futuro, a partire dal ruolo dei Servizi sanitari nazionali, dal fatto che il superamento dei confini nazionali di questa emergenza ha mostrato che mai come in questo momento il sovranismo è inadeguato e dalla consapevolezza che, per quanto qualcuno cerchi di speculare anche in circostanze come questa, l’Europa non può che essere la nostra unica casa. Per proseguire poi con il riconsiderare anche il ruolo fondamentale che tutto l’apparato dell’informazione ricopre, con la necessità che quel sistema cambi drasticamente per qualità e modalità, come con il riconsiderare l’altrettanto fondamentale responsabilità che tutti noi abbiamo nel migliorare il modo in cui ci informiamo (se non siamo sicuri di una cosa che abbiamo letto, non diffondiamola) e, non ultimo, il fatto che in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo bisogna poter contare sul senso di responsabilità di ciascuno. Ed è qui che sorgono i problemi maggiori.
Essere responsabili, consapevoli, autonomi nel giudizio ragionevole e coscienzioso è il risultato di conoscere le cose, capirle, esserne informati, come anche di essere stati educati al senso e al funzionamento di una comunità (e magari anche alla comprensione e ai metodi della scienza). “Capirlo da soli” è il risultato di un lavoro politico e culturale oggi più indebolito che mai. I rituali e secolari commenti sugli italiani che hanno bisogno di essere comandati sono ancora una volta il traboccare verso la repressione di una cosa che andrebbe demandata all’educazione: gli italiani – tutti noi – hanno bisogno di essere educati o di educare sé stessi. Non è un caso se quello che viene definito “honor system” è diffuso nei paesi in cui l’investimento sull’educazione civica, sull’istruzione e sull’informazione corretta è sempre stato maggiore.
Quando tutto questo sarà finito, ricordiamoci di questi problemi, ricordiamoci di quanto va chiarito, sistemato e migliorato, ricordiamoci di quando eravamo uniti, Nord e Sud, Italia ed altri Paesi, ricordiamoci delle cure che abbiamo ricevuto grazie alle tasse che paghiamo, ricordiamoci della vita fuori dai social che ora rimpiangiamo.
E ricordiamoci anche di un Governo che ha dovuto affrontare per la prima volta una situazione tanto critica quanto inattesa, per nulla facile, e che nonostante questo, magari con tempistiche discutibili, ha avuto il coraggio di prendere decisioni drastiche, necessarie e impopolari, mentre altri, combattuti tra diversi interessi, hanno temporeggiato. Perché è vero, come lamentano alcuni, che le istruzioni impartite sono state vaghe ed a volte spaesanti. Ma è anche vero che sono state istruzioni che hanno cercato e stanno cercando di fare una cosa che non si è mai fatta, e che forse non si può fare tanto meglio di così, aggiungendo via via sempre maggiore chiarezza e rimanendo un Paese democratico e libero.
Ricordiamoci che serviva il coronavirus per farci apprezzare la libertà che abbiamo e che diamo troppo spesso per scontata, per farci apprezzare di più le piccole cose, la quotidianità.
Serviva il coronavirus per farci inquinare un po' di meno potendo apprezzare gli effetti del comportamento dell’uomo sull’ambiente.
Serviva il coronavirus per farci cantare di nuovo tutti quanti insieme, per farci capire quanto siamo fortunati.
Serviva il coronavirus per farci capire che un metro di distanza è veramente troppo e che una videochiamata non basta per colmarlo.
Serviva il coronavirus per capire il prezzo di un sacrificio in una vita in cui diamo tutto per scontato. Serviva il coronavirus per capire che il coronavirus non ci serviva.
Ma c’è ancora chi non ha capito, chi fa ancora quello che gli pare (43mila denunciati in una settimana per aver violato i divieti di uscita o per aver falsificato le autocertificazioni). Ma fatemi capire, le vere vittime sono quelli chiusi in casa o le persone in terapia intensiva? Ecco.
Perciò sta a noi impegnarci di più, sta ad ognuno di noi contribuire al rispetto delle regole, a trasmettere l’importanza che sta dietro a tale dovere civico, ad aiutare tutti a comprendere la serietà della situazione, perché c’è di mezzo la vita, perché si deve cercare di uscirne il prima possibile, perché si deve uscirne punto e basta. Perché ne usciremo, questo è certo, quanto è certo che non andrà tutto bene, perché non sta andando tutto bene, non può andare tutto bene quando ci sono di mezzo delle vittime innocenti. Perché dobbiamo essere consapevoli fin da subito che ciò che ci attenderà dopo richiederà da parte di tutti lo stesso impegno e la stessa coesione che ci vengono richiesti ora. Quindi, non appena le cose inizieranno ad andare un pochino meglio, non rimettiamoci tutti di nuovo a fare quello che ci pare. Ci sono ancora troppi potenziali contagiati in ancora troppe case. Il protocollo, infatti, prevede che alla prima comparsa dei sintomi si deve restare a casa in una sorta di automonitoraggio, mentre il tampone viene fatto principalmente a chi ha sintomi evidenti o a chi ha avuto contatti con soggetti risultati positivi. Perciò, anche in seguito, si dovrà necessariamente ritornare a fare affidamento sul buon senso delle persone e servirà nuovamente restare uniti.
Pertanto, fin da ora, teniamo duro, mettiamocela tutta, aiutiamo il personale sanitario, gli ospedali sono allo strenuo delle forze. Facciamolo per loro, facciamolo per i soggetti più a rischio, facciamolo per noi stessi, per le nostre famiglie, per gli amici, per tutti gli altri malati che continuano ad avere bisogno di cure. E per quelli che proprio non riescono a stare a casa, c’è sempre la possibilità di candidarsi per diventare volontari temporanei della Croce Rossa.
Concludo rivolgendo questo ultimo pensiero a tutti quelli che stanno lottando contro il virus, dentro e fuori gli ospedali, alle vittime, alle famiglie delle vittime, alle famiglie di chi sta ancora soffrendo, a tutti quelli che stanno continuando a donare il sangue anche e soprattutto in un momento come questo, a quelli che rispettano le regole, a tutti noi, cittadini di un unico mondo. Ce la faremo.
“SIAMO ONDE DELLO STESSO MARE, FOGLIE DELLO STESSO ALBERO, FIORI DELLO STESSO GIARDINO”.