Sono giorni di acuta fibrillazione per la maggioranza governativa. Infatti è alla ricerca di una possibile mediazione sulla prescrizione. Non sarà facile mediare tra due rigidità contrapposte: quella di Renzi e quella del ministro Bonafede. Intanto nel PD, dopo lo scampato pericolo in Emilia-Romagna, si è aperto un dibattito sulle prospettive future di quel partito.
http://confini.blog.rainews.it/, 6 febbraio 2020
Ne parliamo, in questa intervista, con Giorgio Tonini Capogruppo Pd nel Consiglio della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige ed esponente di spicco dell’anima liberal del PD.
Giorgio Tonini, mi consenta, prima di addentrarci nel tema principale della nostra conversazione (il PD), di fare una domanda di stretta attualità politica. Ovvero non è che Matteo (Renzi) sta esagerando sulla prescrizione? I toni sono apparsi un po’ troppo “salviniani”… il governo avrebbe bisogno di coesione… Invece qui siamo all’opposto, non le pare?
Sulla prescrizione sono sostanzialmente d’accordo con Matteo Renzi, che del resto sta ripetendo e rilanciando le ragioni del no del Pd alla riforma voluta e imposta dal M5S ai tempi del governo con la Lega. Lega che ora strilla e strepita, ma quando era al governo, quella riforma ha subìto e votato senza fare una piega. Penso che non possa non esserci, nel nostro ordinamento giuridico, un termine che traduca in pratica il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi. Per evitare l’abuso delle prescrizioni bisogna sveltire la macchina della giustizia, non allungare indefinitamente i tempi. Detto questo, se si decide di andare al governo coi grillini, e Renzi ha deciso questo, anche forzando la parte più scettica del Pd, non si può non sapere che su temi come questi, posto che a nessuno si può chiedere l’abiura delle posizioni sostenute, è inevitabile ricercare e costruire faticose mediazioni. Renzi finge di ignorare questa elementare verità.
E finisce così per comportarsi come, ahimè, si comportano tutti i partitini, che hanno l’ossessione della visibilità. Anche a costo di minare la coesione e la stessa credibilità delle coalizioni di governo di cui fanno parte. È una dura legge della politica, che prescinde in una certa misura dalla volontà soggettiva dei singoli leader. Una legge che ho visto drammaticamente all’opera nel Senato diviso in due come una mela al tempo dell’Unione (2006-08). Fu anche per superare quella situazione che nacque il Pd.
Parliamo del PD. Il successo di Bonaccini, in Emilia – Romagna, ha portato una boccata di ossigeno ai Dem. Al di là della particolarità regionale, c’è una lezione che può valere per l’intero partito?
La prima lezione, la più importante, è che non bisogna mai dimenticare che in democrazia nulla è per sempre e che qualunque vittoria e qualunque sconfitta sono sempre reversibili.
Nel nostro dibattito pubblico c’è invece troppa emotività legata a situazioni contingenti. Ricordo ancora lo psicodramma, in parte abilmente provocato, ma in parte anche sincero, che si aprì nel Pd nel 2008, dopo la (inevitabile e assai onorevole) sconfitta di Veltroni, col 33 e mezzo per cento e 12 milioni di voti. Nei mesi successivi, come accade in tutte le democrazie del mondo, i sondaggi premiarono Berlusconi (si chiama “luna di miele” e gratifica tutti i governi…) e punirono il Pd, a vantaggio di Italia dei valori, il movimento di Di Pietro che aveva preso il 4 per cento alle elezioni e veniva accreditato dell’8. C’era chi sosteneva che il Pd era già morto e il futuro del centrosinistra era l’ex-pm… Bene, io penso che la prima lezione del voto emiliano è che bisognerebbe lasciarsi meno impressionare dalle istantanee e sforzarsi un po’ di più di cogliere le tendenze di medio-lungo periodo, le uniche sulle quali si possa ragionevolmente intervenire. Con pazienza e tenacia, due virtù sconosciute ad un sistema politico-mediatico ossessionato da quello che Tomaso Padoa- Schioppa chiamava lo short-termismo.
Il successo emiliano, però, ha messo in evidenza dei limiti grossi del riformismo di quella regione. Ed è anche un limite di tutto il riformismo a livello nazionale. Ovvero la distanza dai piccoli centri e dalle periferie…
Uno dei fenomeni di medio-lungo periodo evidenziati dal voto emiliano è in effetti il dualismo tra aree urbane e aree rurali/montane e tra grandi e piccoli centri. La sinistra è forte in città e la destra (in particolare la Lega) nelle campagne. Non è una novità. Già dieci anni fa il sociologo bolognese Fausto Anderlini aveva segnalato la massiccia infiltrazione della Lega nelle aree periferiche dell’Emilia Romagna. E aveva rilevato come la persistente egemonia del centrosinistra in quella regione, specularmente alla situazione del Veneto, fosse dovuta proprio alla prevalenza demografica delle aree urbane. Anderlini ammoniva il centrosinistra rispetto all’emergere di una nuova insidia: il manifestarsi e lo strutturarsi, principalmente nelle aree urbane, del M5S, che rischiava di svuotare dall’interno il principale bacino elettorale del Pd, come in effetti è avvenuto negli anni successivi. È stata proprio la riconquista del proprio elettorato urbano, grazie al declino del M5S, la principale spiegazione del successo del Pd e di Bonaccini. Ma proprio per questo la vittoria del centrosinistra in Emilia, che pure testimonia la resilienza del Pd e la sua possibile ritrovata superiorità competitiva rispetto alla minaccia di erosione da parte del M5S, non segna affatto il superamento delle ragioni strutturali del primato della destra, oggi a guida leghista, nel nostro paese.
Insomma dove c’è più bisogno di proteggere, il PD non c’è. Una brutta eterogenesi dei fini per una forza di sinistra. Non è venuto il tempo di elaborare una idea di sinistra per la “protezione”? Perché lasciare alla propaganda securitaria della Lega questo tema?
È un grande tema europeo e occidentale. Provo a rispondere con le parole di Branko Milanovic, che sull’ultimo numero di “Foreign Affairs”, dedicato al futuro del capitalismo, scrive che “Il malessere occidentale rispetto alla globalizzazione è in gran parte il prodotto del gap tra la ristrettezza numerica delle élite premiate dalla globalizzazione stessa e le masse che ne hanno tratto ben modesti benefici e, più o meno fondatamente, identificano nel commercio globale e nell’immigrazione le cause dei loro mali”. Rispetto a questo malessere, le forze politiche di sinistra vengono percepite come impotenti, se non addirittura complici. E se non è visibile nessuna realistica prospettiva di tutela e promozione degli interessi deboli dentro la globalizzazione, si finisce per considerare come unica risorsa disponibile l’opposizione alla globalizzazione in quanto tale, attraverso le forze politiche, sociali e culturali di stampo populista, sovranista, identitario. In quello stesso saggio, Milanovic sostiene (e per quanto mi riguarda condivido questa sua posizione) che non sarà il ritorno ad un vecchio schema socialdemocratico la via d’uscita della sinistra dalla sua crisi. Piuttosto servono vie nuove, come quella che lo stesso Milanovic definisce “People’s capitalism”, capitalismo popolare, “simile al capitalismo socialdemocratico nella preoccupazione per la disuguaglianza, ma proteso verso un tipo diverso di uguaglianza, centrato non più tanto sulla redistribuzione del reddito, quanto su quella degli asset, in particolare finanziari, e di skill, di profilo formativo e professionale”.
Suggestioni interessanti, ma siamo, come si capisce, molto indietro rispetto all’urgenza di definire una proposta programmatica convincente e vincente. Una proposta che peraltro dovrà assumere una dimensione europea. E questo, stante l’attuale stato di salute dell’Unione, è un problema nel problema.
Ora per Zingaretti è prioritario aprire il PD, “spalancare” le porte, per usare una espressione di Papa Wojtila, a tutto il campo progressista. Però, paradossalmente, non è un limite? Voglio dire che Bonaccini è stato in grado di raggiungere altri lidi, lo stesso Beppe Sala vince perché raggiunge mondi diversi. Qual è il suo pensiero? E ancora: questa apertura, che cerca Zingaretti, implicherà una rottura delle oligarchie interne? Qui c’è il tema della cessione di potere alla società civile…
Quello dell’apertura alla società civile è un tema permanente nella vicenda storica dei grandi partiti, che tendono sempre a stabilizzare il primato del gruppo egemonico, anche a prezzo di perdere una quota di consensi. Il Pd si è proposto sin dalle origini come “partito aperto”, sul piano organizzativo, e “a vocazione maggioritaria”, su quello politico e programmatico. Siamo tuttavia lontani dal raggiungimento di questo modello. Al contrario, il Pd in questi anni ha conosciuto una grave involuzione oligarchica, che ha segnato un ritrovato controllo dell’establishment correntizio sul partito, attraverso la gestione delle carriere politiche. Basti pensare ai criteri con i quali è stata composta la delegazione del Pd al governo: l’antico manuale Cencelli lasciava più spazi alla fantasia… La progressiva chiusura su se stesso del partito “aperto” (si pensi al rarefarsi del ricorso alle primarie come strumento per rendere effettivamente contendibili le candidature, almeno alle cariche monocratiche) ha portato anche ad un parallelo, progressivo appannarsi della “vocazione maggioritaria”, fino a revocare in dubbio l’identità stessa del Pd come Casa comune dei riformisti. Al contrario della tensione unitaria e unitiva che caratterizzava l’Ulivo e poi il Pd delle origini, basati sulla scommessa che l’incontro tra forze e tradizioni politiche diverse fosse elettoralmente oltre che politicamente espansivo, fino a raggiungere ceti, interessi, culture collocati ben oltre i tradizionali confini della sinistra, oggi assistiamo ad una nuova, pericolosa tendenza alla divisione e alla frammentazione. Mi auguro che Zingaretti voglia e riesca ad invertire questa tendenza e a rilanciare in termini innovativi la duplice impresa del partito aperto e a vocazione maggioritaria.
Parliamo delle “6000 Sardine”. Le Sardine hanno fatto un grande lavoro di “coscientizzazione” nel popolo del centrosinistra e non solo. Però, in questi giorni, sono uscite delle fibrillazioni causate da una fotografia con Benetton. È stato un brutto scivolone certamente. Forse per loro è suonata una campana d’allarme?
Il principale motivo dell’interesse che hanno suscitato in me le “Sardine” è stato il loro presentarsi come un movimento contro la politica “contro” e per una politica “per”. In questo senso hanno ricreato il clima dell’Ulivo di Prodi e del Pd di Veltroni. Dopodiché, sappiamo che questi movimenti, che in alcuni tornanti storici possono giocare un ruolo decisivo, sono strumenti monouso. Mi auguro che il Pd possa presentarsi come uno sbocco accogliente e interessante per le energie, in particolare giovanili, che con quel simbolo solo apparentemente leggero (come l’ulivo anche il pesce è un antico simbolo cristiano…) si sono radunate e ritrovate. Alle elezioni emiliane, a me pare che le “Sardine” abbiano rappresentato il principale veicolo simbolico del ritorno al Pd dei voti persi in direzione del M5S. Un “effetto collaterale” provocato dalla bulimia comunicativa di Salvini e del suo messaggio estremistico e divisivo. Col suo invadente presenzialismo nella campagna elettorale emiliana, Salvini ha ripolarizzato fortemente lo scontro sull’asse destra-sinistra, ridimensionando l’altro crinale, quello vecchio-nuovo. Salvini ha così prosciugato l’acqua nella quale nuotavano i grillini che sono tornati al centrosinistra in forma di sardine. Ma per le ragioni strutturali descritte da Anderlini, se prevale l’asse destra-sinistra, in una regione come l’Emilia-Romagna, finisce per vincere la sinistra. Una strategia suicida, quella del leader della Lega, se si pensa che gli sarebbe bastata una cifra elettorale appena più alta dei grillini per assicurarsi la vittoria. Dopo il pesante fallimento della prova di governo e la sconcertante ingenuità con la quale ha condotto la manovra di palazzo che avrebbe dovuto portare alle elezioni anticipate, Salvini esce dalle elezioni emiliane fortemente ridimensionato anche come stratega elettorale. Il che non significa, almeno nell’immediato, che non resti fortissimo sul piano del consenso.
Zingaretti dice: siamo tornati al bipolarismo “destra-sinistra”. Le chiedo come si fa a concepire un nuovo bipolarismo quando i 5 Stelle continuano nella loro ambiguità e l’accordo, tra le forze di governo, prevede una forte legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5%?
Dalle elezioni regionali (tutte, non solo quelle dell’Emilia-Romagna) è emersa una conferma dello schema bipolare lungo l’asse destra-sinistra. Credo tuttavia che sia un errore ragionare di legge elettorale avendo presente il panorama politico (e magari, perfino i rapporti di forza) di una determinata stagione. È una delle varianti più gravi di quello che prima, citando Padoa-Schioppa, chiamavo lo short-termismo. Per me la legge elettorale deve garantire la rappresentanza, ma anche combattere la frammentazione e soprattutto consentire ai cittadini di decidere chi debba governare. Mi piacerebbe che il Pd si sedesse al tavolo del confronto con questa visione ben chiara. Poi sulle scelte tecniche si possono fare tutte le mediazioni. Purché sia chiara la visione di democrazia che proponiamo. E si provi a tradurla in una legge elettorale che valga se non per sempre, per un arco temporale di lungo respiro.
Ultima domanda: Qual è l’avversario più temibile, nella destra, Giorgia Meloni o Matteo Salvini?
Oggi il leader della destra è Salvini, domani non sappiamo. Perché i leader passano, gli schieramenti, la destra e la sinistra, si modificano, evolvono o involvono, ma restano. Per questo ho sempre trovato, non saprei dire se più penose o più risibili, le scissioni motivate da questioni contingenti. Una volta si usciva da un partito in base al giudizio sull’Unione Sovietica. Oggi si lascia perché non si condivide un segretario o una scelta di governo. Ma la politica democratica ha bisogno di istituzioni forti e di partiti grandi e stabili. Non dell’inseguimento di mode passeggere.