Il dibattito sulla necessità o meno per il Trentino di avere una facoltà di medicina — giustificata dal Presidente della Provincia Fugatti sulle pagine del Corriere del Trentino dal fatto che si fatica ad assumere nuovi medici in Trentino — non si è basato su alcun dato o ragionamento di sistema, ma si è limitato alla tautologica affermazione che siccome mancano medici, allora basta laurearne di più. Un po’ come dire che siccome il traffico aumenta, allora basta fare più strade.Luca Zeni, "Corriere del Trentino", 29 novembre 2019
Proviamo ad allargare lo sguardo. Il problema della carenza di medici è comune a tutta Europa. Se confrontiamo i dati (Eurostat 2016), vediamo che l’Italia ha meno medici di medicina generale rispetto ad altri Paesi (89,2 ogni 100 mila abitanti contro i 97,8 della Germania e i 152,9 della Francia), ma un numero alto di medici specialisti (306,1 contro i 320,9 della Germania e i 181,7 della Francia). Quello che ci penalizza è l’età media più elevata di tutti gli altri Paesi.
L’età media alta è dovuta ad una generazione di medici figlia del baby boom, arrivata all’età della pensione tutta insieme. I numeri forniti a livello nazionale da Anaao-Assomed parlano di 24.000 pensionamenti nei prossimi tre anni, anche per l’effetto di quota 100, che ha accelerato il processo. Ecco perché serve garantire il ricambio.
Quando si parla della formazione di nuovi medici tutti i commentatori rilevano come uno dei problemi maggiori sia non tanto il numero di laureati, bensì il cosiddetto imbuto formativo: ogni anni si laureano circa 9000 nuovi medici, ma solo 7000 possono accedere alle specialità, quindi 2000 medici rimangono esclusi e di fatto non possono esercitare la professione.
Questo è il tema centrale del documento recentemente approvato dalla Conferenza delle Regioni, di cui anche il Trentino fa parte, e che avanza una serie di proposte, alcune discutibili (ad esempio diminuire le ore di riposo dei medici, o far lavorare di più i pensionati), altre molto interessanti, in particolare la possibilità di «specializzazione e lavoro», ovvero lo studio teorico presso l’Università svolto insieme al lavoro come dipendente presso le varie Aziende sanitarie, come avviene in altri Paesi. Manca tuttavia l’impegno a finanziare più borse per le specialità.
Le considerazioni svolte ci permettono di valutare con maggiore consapevolezza la volontà di attivare una facoltà di medicina in Trentino. Di certo non può essere la carenza di medici la motivazione principale per avviare un percorso tanto impegnativo. Occorre piuttosto una programmazione che includa:
- un’organizzazione che prosegua nella crescita e valorizzazione delle professioni sanitarie non mediche, sgravando il medico da alcune incombenze;
- una rete ospedaliera che consenta il miglior utilizzo dei medici, evitando di avere reparti oberati in alcuni ospedali e poco attivi in altri, magari garantiti per motivi esclusivamente politici;
- un progetto di sanità attrattivo. Il medico si sposta soprattutto in base alla proposta professionale, non a qualche euro in più in busta paga, e recentemente abbiamo avuto alcune perdite importanti nel nostro sistema sanitario che paga l’assenza di una linea chiara e di un navigare spesso a vista;
- il collegamento con enti di ricerca e con le facoltà di medicina più vicine, con convenzioni che consentano lo scambio professionale e la presenza di specializzandi nei reparti degli ospedali trentini. La figura dei primari è centrale nel curare i rapporti con la «scuola» di provenienza;
- proseguire il sostegno alla formazione per i giovani medici trentini: se nel 2009 erano 330 i giovani trentini iscritti nelle diverse facoltà di medicina, nel 2018 sono stati 685.
In questo contesto, la valutazione sulla necessità di una facoltà di medicina in Trentino, che si trova molto vicino agli atenei di Verona, Padova, Innsbruck, solo per citare quelli limitrofi, non è tema che si può liquidare con battute elettorali, per l’entità dell’investimento e per il rischio di non raggiungere l’obiettivo auspicato, oltre che di incrinare i rapporti con realtà senza le quali oggi il nostro sistema entrerebbe in crisi (pensiamo al rapporto con l’università di Verona, alle convenzioni che hanno molti dei nostri reparti, alla facoltà in scienze infermieristiche, con laurea magistrale e master).
È necessario un confronto che coinvolga tutti gli interlocutori, ma a livello di metodo la giunta provinciale è riuscita a creare crisi diplomatiche su tutti i fronti: università di Trento, enti di ricerca trentini, ateneo veronese ed ora è costretta a recuperare i rapporti riaprendo i tavoli.
Nel merito, Padova è l’ateneo con il corpo docenti maggiore in Italia e aprire una succursale in Trentino rappresenta per loro un’opportunità di business milionario.
Quello che dobbiamo chiederci è se il nostro interesse sia avviare un corso di laurea generale — poco senso avrebbe l’ipotesi emersa di partire solo con gli ultimi due anni di corso, poiché non si avrebbero né i corsi specialistici né l’incentivo della sede sotto casa per iscriversi a medicina per quei giovani trentini poco propensi alla mobilità — puntando in un futuro indefinito ad aggiungere anche qualche corso specialistico, o piuttosto concretizzare il percorso (inverso) avviato dall’Università di Trento con l’Azienda sanitaria. Ossia partire dall’imbuto, dalle specialità, con collaborazioni con altri atenei capaci di coinvolgere e far crescere docenti e medici dell’Università di Trento e dell’Azienda sanitaria, clinicizzando alcuni reparti, e poi, in futuro, valutare l’opportunità di far partire un corso di laurea. Anche perché di solito i giovani medici creano i rapporti alla base del loro futuro professionale laddove svolgono la specialità.
L’impressione tuttavia è che l’ampio dibattito che si è aperto non porterà a cambiamenti di linea, e prevarrà la leadership del dirigente del Dipartimento alla salute e la sua volontà di rafforzare l’asse con un ambiente che conosce bene come Padova, magari dopo aver mediato rispetto a qualche forma di coinvolgimento di ateneo ed enti di ricerca trentini.
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