Pochi medici? Non è colpa del numero chiuso

Fermo restando che non è necessario formare nuovi medici ma nuovi specialisti, far nascere a Trento una succursale di un altro Ateneo rappresenterebbe l’ennesimo scivolamento verso il Veneto del Presidente Fugatti che, evidentemente, non incarna quello spirito trentino che vede la nostra Autonomia come strumento per essere protagonisti, e non spettatori, in un piccolo territorio che vuole porsi come laboratorio di sviluppo.
Alessandro Giovannini, 26 novembre 2019

 

Egregio direttore, prendo spunto da alcune sue riflessioni recentemente pronunciate in merito alla programmazione sanitaria che, da giovane laureando in medicina, non mi sento di condividere. Ciò, peraltro, non scalfisce la considerazione che ho sviluppato verso di Lei, dopo aver letto svariati editoriali sui quotidiani locali che ha diretto negli ultimi anni e attraverso i dibattiti che ha moderato all’interno dei numerosi e ricchi Festival che la nostra città ha ospitato negli ultimi anni: la considerazione di un professionista che sa leggere molto limpidamente la realtà e che traduce questa lettura, giustamente anche in maniera talvolta tagliente, in proposte pragmatiche e realizzabili per la politica locale. Ahimè, in quest’occasione non ho visto questa concretezza nelle soluzioni da Lei prospettate.

Mi riferisco alle Sue esternazioni sull’abolizione del numero chiuso alla facoltà di medicina che ho letto nella risposta ad una lettera del 13 ottobre e ad una del 20 novembre, la prima sulla carenza di medici e la seconda sulla possibilità di avviare a Trento un percorso universitario di Medicina e Chirurgia. Mi dispiace che la narrazione populista, secondo la quale la carenza di medici è imputabile alla presenza del numero chiuso nelle Università, abbia preso piede in maniera così pervasiva anche tra i più informati e dotati di spirito critico. Mi dispiace perché, una volta assunta come vera la narrazione di cui sopra, la soluzione sembra logica e a portata di mano e viene allora auspicato a gran voce un aumento dei posti nelle Facoltà di Medicina. Non solo, in un Paese in cui lo scopo di una certa parte del mondo politico è quello di macinare consensi attraverso una perenne attività di propaganda, era logico che questa effimera strada venisse perseguita anche in questo campo, come ha fatto l’ex ministro leghista Bussetti ampliando di 1789 (da 9779 a 11568) i posti per l’anno accademico da poco iniziato. Ed ecco che, come se servisse ancora una volta dimostrarlo, il populismo si rivela essere la miglior arma che parla alla pancia delle persone, ma fallimentare nel dare risposte realmente efficaci: basti solo sapere che il 2 luglio di quest’anno 17600 laureati in Medicina e Chirurgia hanno partecipato al test per entrare nelle scuole di specializzazione, ma i posti a disposizione erano 8935 circa. Ci sono dunque 8665 medici (quasi la metà) che, non essendo specialisti, non possono essere assunti dal Servizio Sanitario Nazionale e dopo sei anni di studi sono abbandonati in un limbo in cui non sono né carne né pesce. È onesto ammettere che tra questi 8665 cosiddetti “camici grigi” qualcuno inizia il percorso nelle Scuole di Medicina Generale, ma resta comunque un gap considerevole. I dati più recenti, pubblicati sull’osservatorio statistico del MIUR, riferiti all’anno accademico 2017-2018, dimostrano come ci siano 78117 studenti iscritti alle facoltà di Medicina e Chirurgia in Italia; possiamo stimare dunque circa 13000 laureati per anno che, sommati agli 8665 camici grigi, portano ad un potenziale valore di circa 23000 partecipanti al concorso di specialità dell’anno venturo. È vero che alcuni parlamentari PD e 5S hanno depositato alcuni emendamenti alla Manovra di Bilancio, in discussione a Roma in questi giorni, rivolti all’aumento di 2000 unità delle borse di studio per la specializzazione (al costo di 250 milioni di Euro), ma è evidente che nemmeno quest’impegno va a risolvere il problema. Continuare ad alimentare quest’imbuto formativo, con l’abolizione del numero chiuso, in primo luogo non risolve la carenza di medici specialisti e in secondo luogo porta solo ad illudere i 18enni di oggi di poter iniziare un percorso impegnativo e prestigioso che a 25 anni, con la laurea in mano, rischia di arrestarsi.

È con questo spirito che mi permetto di sollevare qualche perplessità anche nei confronti della notizia pubblicata oggi sul fondo della vostra prima pagina, ripresa nelle pagine interne, e come titolo principale sugli altri due quotidiani cartacei locali, inerente l’apertura a Trento di una succursale della facoltà di Medicina e Chirurgia di Padova. Se posso comprendere e condividere la soddisfazione del Presidente dell’Ordine dei Medici dott. Ioppi, che vede in questa notizia l’opportunità per la Sanità locale di fare uno slancio in avanti in termini di qualità e di innovazione, per arrivare a quel livello che noi studenti possiamo sperimentare tutti i giorni frequentando i centri universitari all’avanguardia, non posso condividere la declinazione che il Presidente vuole attuare. Fermo restando che non è necessario formare nuovi medici ma nuovi specialisti, far nascere a Trento una succursale di un altro Ateneo rappresenterebbe l’ennesimo scivolamento verso il Veneto del Presidente Fugatti che, evidentemente, non incarna quello spirito trentino che vede la nostra Autonomia come strumento per essere protagonisti, e non spettatori, in un piccolo territorio che vuole porsi come laboratorio di sviluppo. Era molto più ricca di questo sentire, che ricalca poi quello con cui Bruno Kessler si impegnò per la costituzione dell’Università degli Studi di Trento, l’idea emersa qualche mese fa dal Rettore Collini di voler valorizzare la realtà provinciale con la costituzione di un sistema rivolto a specializzare i medici sfruttando le risorse e le capacità locali in partnership con un altro ente, ma la classe politica provinciale pare voglia percorrere un’altra strada. Speriamo si possa riaggiustare il tiro verso un progetto più creativo e ambizioso che darebbe respiro alla nostra capacità di autogoverno, segno distintivo della nostra Provincia. Perché no, magari in cooperazione con le altre realtà dell’Euregio. Così facendo, inoltre, gli aspiranti camici bianchi potrebbero entrare in contatto con una realtà epidemiologica più ampia e formativa della sola realtà provinciale che dal punto di vista della casistica non ha certamente gli stessi numeri degli altri Atenei italiani.