Sul Corriere del Trentino del 10 ottobre, il signor Lucio La Verde si chiede se i (modesti) risparmi per le finanze pubbliche, prodotti dalla riduzione del numero dei parlamentari, compensino la riduzione degli spazi di democrazia e di rappresentanza che il taglio comporta.
Giorgio Tonini, 15 ottobre 2019
Un interrogativo tutt’altro che peregrino, al quale il lettore aggiunge una severa critica al Pd per aver cambiato posizione, votando a favore del taglio, dopo aver votato contro per ben tre volte, nei precedenti passaggi parlamentari. Un esempio, scrive, di come le scelte cambino a seconda se si sia al governo o all’opposizione. Non sarò certo io a negare che la collocazione parlamentare influenzi (e non poco) le posizioni dei partiti sui singoli dossier. In questo caso specifico, tuttavia, mi pare che le motivazioni del cambiamento di voto dei dem siano comprensibili e ragionevoli. Il Pd non è mai stato contrario, in linea di principio, alla riduzione del numero dei parlamentari, anzi si è sempre dichiarato favorevole: per ragioni non solo e non tanto di risparmio, quanto soprattutto di autorevolezza della rappresentanza e di qualità del lavoro parlamentare. Del resto, nessun paese europeo ha quasi mille parlamentari eletti direttamente dai cittadini, nemmeno la Germania. Dunque, portare i nostri parlamentari a seicento è un’operazione che abbiamo sempre considerato come necessaria e urgente. Noi avremmo tuttavia scelto un’altra strada per arrivare a quel risultato, quella del superamento del bicameralismo perfetto in favore della specializzazione dei due rami del Parlamento: una sola Camera politica, titolare del potere di fiducia al governo, e un Senato espressione delle autonomie regionali e locali. Per questa via, si sarebbe quindi potuta ottenere la riduzione dei parlamentari mantenendo una Camera ampiamente rappresentativa e realizzando una più razionale distribuzione del lavoro tra Camera e Senato.
Il problema è che questa nostra proposta, contenuta nella riforma costituzionale approvata nella scorsa legislatura, è stata bocciata dal popolo sovrano con il referendum del 4 dicembre 2016. Cinquestelle e Lega, dando vita al governo Conte 1, hanno quindi trovato l’accordo tra loro su un taglio equivalente, sul piano numerico, a quello sostenuto dal Pd nella scorsa legislatura, ma preservando l’attuale bicameralismo paritario. E hanno posto il Pd dinanzi alla scelta tra prendere o lasciare. Il Pd ha preferito lasciare, votando contro per ben tre volte, ritenendo di dover privilegiare, stando all’opposizione, quel che divideva la sua posizione da quella della maggioranza.
E a questo punto che ha indubbiamente pesato il cambiamento di collocazione del Pd, dall’opposizione al governo. Il bicchiere, che quando si è all’opposizione può (e in una certa misura deve) essere visto come mezzo vuoto, quando si va al governo deve essere guardato come mezzo pieno: perché si ha una responsabilità più grande, quella di trovare la sintesi e non solo di rappresentare il proprio punto di vista. E perché, nel costruire la sintesi, si può far pesare il proprio punto di vista: nel caso in questione, impegnando la coalizione ad affiancare al taglio dei parlamentari misure regolamentari, una legge elettorale e perfino altri correttivi costituzionali che facciano aumentare la parte piena del bicchiere.
Il signor La Verde sostiene anche che con il taglio dei parlamentari sarà ancora più difficile, per i nostri deputati e senatori, «difendere» in Parlamento la nostra autonomia speciale. Su questo punto mi permetto di correggere il mio gentile interlocutore, perché non si tratta di un’opinione o un giudizio, ma della descrizione di uno stato di fatto che invece non esiste. La nostra rappresentanza parlamentare è sempre stata quantitativamente modesta perché noi trentini e altoatesini siamo un milione su sessanta milioni di italiani. Alla Camera tale proporzione è rispettata pressoché alla lettera. Al Senato invece, come tutte le Regioni piccole, siamo sempre stati un po’ sovrarappresentati. Con la riforma resteremo nella condizione attuale alla Camera (7 su 400 invece di 10-11 su 630), mentre saremo molto sovrarappresentati al Senato: 6 senatori (3+3) su 200, invece di 7 su 315. Semmai, il difetto «autonomistico» di questa riforma è la separazione, sempre al Senato, delle due province in due circoscrizioni separate, anziché accomunate, come oggi, nell’unica circoscrizione regionale. Un difetto forse inevitabile, ma pur sempre un difetto.