Alessandro Olivi si rivolge al suo partito, il Pd, e in vista delle elezioni amministrative del 2020 chiede «coraggio», evitando «di essere subalterni». Il partito, spiega, deve costruire un’alternativa entro chiari confini valoriali.
M. Damaggio, "Corriere del Trentino", 29 settembre 2019
Pone il doppio scisma, di Carlo Calenda poco prima e di Matteo Renzi poco dopo, nell’antologia degli appetiti personali che la storia della Repubblica ha già visto e censito. «Le frammentazioni non nascono da opzioni politiche diverse, bensì dalla voglia di assegnarsi potere negoziale», riflette Alessandro Olivi, consigliere provinciale del Pd e già vicepresidente della Provincia. Ciò detto, nel mezzo di un dibattito che incede verso le amministrative 2020 e apparecchia la scacchiera delle alleanze potenziali, Olivi supera le secche del toto-nomi (compreso il suo) e si rivolge piuttosto al suo partito. Lo fa chiedendo «maggiore coraggio», evitando così di accomodarsi con piglio «rinunciatario» nelle seconde file di chi passa timidamente in difesa. Da evitare, dice, anche «la santa alleanza contro i barbari». Ovvero coalizioni fuse a freddo per contrastare l’onda della Lega. «Questo approccio è un errore» insiste esortando il presidio dei territori («Il Pd non è espressione del solo ceto urbano») e la riaffermazione chiara di una cornice valoriale. Progressista, s’intende.
Partiamo dal principio: il Pd come sta in seguito alla doppia scissione di Matteo Renzi e Carlo Calenda? Un distacco inevitabile oppure una scelta inopportuna?
«Nel Pd, purtroppo, in tutti questi anni hanno coabitato correnti e correntine che si sono sempre fatte molta guerra tra loro, anche rinunciando all’assunzione di una responsabilità ben più grande: guidare un progetto di cambiamento del Paese. I risultati di oggi dunque non nascono dal nulla ma da una faticosa traiettoria dove si sono consumate molte energie nelle interdizioni reciproche e nella ricerca di un primato, dentro al Pd, anziché occuparsi di assicurare riforme all’altezza delle sfide che ci attendono. Ciò detto, in questo momento non vedo le ragioni politiche di tale frammentazione. Se si è stati capaci di stare assieme in momenti diversi oggi, nel mezzo di un’urgenza culturale, non capisco la ratio . Sia chiaro: non credo che il tema sia costruire una “santa alleanza” contro alcuno, piuttosto c’è da avviare una battaglia culturale, di valori e civiltà. Ecco, allora, che le divisioni forse non nascono da opzioni politiche diverse, bensì da una voglia, con slancio proporzionale, di avere uno spazio di negoziazione».
In Trentino, specie nel caso di Italia Viva, la diaspora non c’è stata. Al di là di volti da sempre fedelissimi, come Elisa Filippi, le sirene di Renzi non sembrano aver sedotto il partito.
«Trovo difficile pensare che, uscendo dal partito, allora sia più facile interpretare la società. Sono contro la topografia politica, in cui ognuno si ritaglia uno spazio geometrico: oggi mi chiamo in un altro modo e conseguentemente rappresento i moderati, il centro o chicchessia. Esistono certamente categorie sociali ed economiche che hanno problemi a cui il Pd non ha saputo dare le risposte giuste e questa sì che è una sfida. Ma è una sfida che non si vince staccandosi dal Pd attraverso un processo a freddo. Il percorso che mi aspetto è piuttosto diventare punto di riferimento di una diversificazione sociale ed economica che un grande partito e una grande comunità politica deve saper interpretare ancora oggi».
Definita la nuova geografia, si apre il capitolo delle elezioni amministrative. Calenda ci sarà con liste territoriali, Renzi valuta. Ma c’è il rischio che sfuggano alle alleanze con il Pd?
«È qui che non capisco: questa proliferazione di sigle da cosa nasce? Nasce da una visione diversa del Trentino? Nasce da una diversa impostazione culturale su temi decisivi? Se sì vorrei capire quali sono i punti distintivi. Finché le differenze mi sembrano più tattiche che di sostanza resta il sospetto che siano legate al precostituirsi forza negoziale. Ecco, rispetto al 2020 dobbiamo fare grande attenzione anche a non usare il civismo come un pretesto».
Cosa intende?
«Definirsi civici oggi è accattivante e lo dico sentendomi estremamente civico. Ma questo non può diventare la scorciatoia per eludere un tema di fondo: da che parte stiamo? Qual è il campo comune? Nel mezzo di una stagione politica segnata da una destra regressiva che si rivolge all’insicurezza sociale come collante della sua proposta politica orientata all’Io impaurito, noi dobbiamo costruire una nuova cultura di comunità e, su questo, il civismo non può essere escluso. I partiti non devono lasciare la Lega da sola a parlare alle piccole comunità. E non possono acconsentire che gli Stati generali della montagna siano un modo per delegittimare un’area culturale che sa prendersi cura dei territori e dei municipi. Ecco allora che il civismo dev’essere fermento dentro ai partiti anziché un altro partito o un alibi per sfuggire a una battaglia civile in cui si deve dire da che parte si sta. Non c’è bisogno di fare “sante alleanze” contro qualcuno o per contrastare l’invasione barbarica, dobbiamo fare un’alleanza valoriale per fare una proposta alternativa anziché difensiva. Dobbiamo costruire una coalizione coraggiosa che dica da che parte sta».
A Rovereto si riflette sul da farsi: posta la necessità di rispondere all’onda della Lega, dentro al Pd c’è chi pensa al sostegno di Francesco Valduga poi chi, invece, vuole evitare di auto-recludersi nelle retrovie e suggerisce di indicare un candidato del Pd. Che fare?
«Prima serve forse una premessa».
Prego.
«Non giudico con leggerezza chi fa un lavoro faticoso nella segreteria e nei coordinamenti, ma mi permetto un consiglio: attenzione a non elevare il 2020 a soglia di vittoria o sconfitta assolute. Se si vince a Trento e forse Rovereto e si abbandona il campo nel proporsi come punto di rifermento per le persone che hanno bisogno di risposte, ecco che compiamo un errore. Il Pd non è solo espressione del ceto urbano, questa è una delle grandi questioni di fondo su cui si gioca la sfida futura: oggi l’autonomia trentina è in fase di involuzione e serve una forza politica progressista che si occupi di un Trentino diffuso».
Quindi il Pd deve esserci da protagonista?
«Io non ho dubbi: una forza politica deve mettere in campo tutto il proprio patrimonio di idee, persone, esperienze e competenze e metterle a disposizione della città. Oggi un approccio subalterno e rinunciatario non va nell’interesse né di Trento, né di Rovereto, né di nessuna città. Rovereto è un centro — e questo non è un giudizio sull’amministrazione attuale — dalle potenzialità assopite, ripiegata su sé stessa, che rischia un po’ di rassegnarsi a un ruolo secondario. Oggi si discute di persone, di nomi, di sigle, di tattiche, ma si parla poco delle città. Al Pd, a cui do consigli non richiesti, dico allora che deve avere più coraggio e proporsi come la forza che guida un progetto di innovazione e rilancio della città, al di là del candidato sindaco e del dilemma con chi stare. A Rovereto sento che c’è voglia di investire su un ritrovato protagonismo: ambiente, lavoro e istruzione devono essere i punti di partenza.