Il 17 febbraio del 2009, il primo segretario del Pd, Walter Veltroni, sentendo venir meno, attorno a sé, il consenso di gran parte del gruppo dirigente, decise di farsi da parte “per salvare l’unità del partito”. Giorgio Tonini, 22 settembre 2019
Dieci anni e mezzo dopo, Matteo Renzi, anche lui finito in minoranza, ha invece organizzato una scissione dei gruppi parlamentari del Pd, derubricando a manifestazione di “ipocrisia” ogni richiamo all’unità: “È andata così – ha scritto nella sua e-mail settimanale – salutiamoci e rispettiamoci”.
La radicale diversità tra l’approccio di Veltroni e quello di Renzi (due leader che, sia pure in modo diverso, ho sostenuto e con i quali ho collaborato) mi ha ricordato il celebre episodio biblico del figlio conteso tra due madri. Entrambe avevano partorito, poi uno dei due bambini era morto e le due donne si contendevano quello vivo dinanzi al re Salomone. Dopo averle ascoltate entrambe, dice la Bibbia, il re ordinò: “Prendetemi una spada!”. Portarono una spada alla presenza del re. Quindi il re aggiunse: “Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”. La madre del bimbo vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: “Signore, date a lei il bambino vivo, non uccidetelo!”. L'altra disse: “Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!”. Presa la parola, il re disse: “Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre”.
Sento già l’obiezione a questo accostamento: pura nostalgia di una visione sacrale del partito politico, quasi fosse una chiesa e non uno strumento laico per fare politica. Nulla di più lontano dal mio pensiero e soprattutto dall’idea fondativa del Pd. Il Partito democratico non è un’assemblea di credenti, ma un’impresa collettiva, fondata non su una comunanza di fede, bensì tutto al contrario sulla convergenza tra persone dalle fedi più diverse, attorno ad un comune progetto politico e programmatico per il Paese.
Ma questo laicissimo progetto politico e programmatico è un progetto di unità: la casa comune dei riformisti italiani, come ebbe a definirla Romano Prodi. È il progetto-partito che mancava nella Prima Repubblica, quando i riformisti erano divisi tra loro e ridotti in minoranza nei rispettivi partiti. Dunque, senza l’unità dei riformisti non c’è più il Pd, ma non c’è più nemmeno il riformismo, perché viene meno il presupposto della sua ambizione a proporsi come formazione maggioritaria nel Paese. Se torna a dividersi, il riformismo torna nella condizione di subalternità in cui stava, prima dell’Ulivo e del Pd.
Per questo l’unità del Pd non è un optional del quale si possa fare a meno, tanto meno un cascame ideologico del quale liberarsi il prima possibile. È condizione di vita del riformismo italiano, che farebbe la fine del bambino sotto la spada del re Salomone, se la scissione avesse successo e se tornasse a riproporsi la frattura, al posto della fusione, tra socialdemocrazia e liberalismo democratico. Naturalmente unità non vuol dire uniformità. In tutti i grandi partiti di centrosinistra del mondo, dai Democratici americani ai laburisti inglesi ai socialisti tedeschi o spagnoli, la dialettica tra posizioni più “sociali” o più “liberali” è elemento permanente e costitutivo. È stato ed è così anche nel Pd. E questa dialettica alimenta e dà significato e sapore alla competizione interna, alla contesa per la leadership. Ma il pluralismo e la competizione democratica che esso alimenta possono sussistere solo se tutti difendono il valore dell’unità e accettano la disciplina che esso comporta: a cominciare dalla lealtà nei confronti della leadership pro tempore, scelta attraverso il metodo democratico.
Ed è per questo che la scissione (qualunque scissione, quella di Renzi oggi, come quella di Bersani e D’Alema ieri) è un grave errore storico-politico e l’invito di Renzi a “salutarci e rispettarci” è una sconcertante manifestazione di superficialità, come se tutto potesse risolversi in una questione di galateo.
In gioco c’è molto di più. C’è anzitutto il successo della difficile impresa di governo nella quale ci siamo imbarcati, una volta tanto tutti d’accordo. Dire che il governo Conte 2 non ha nulla da temere dalla scissione del partito che rappresenta il pilastro fondamentale dell’alleanza giallo-rossa, della sua credibilità interna e internazionale, è (questa sì) una gigantesca ipocrisia. Come se l’esperienza non ci avesse insegnato che la frammentazione delle coalizioni e la ricerca di visibilità di ogni singola componente è il principale fattore di logoramento e poi di collasso delle esperienze di governo. D’altra parte, è proprio la condivisione dell’impresa governo che rende la scissione immotivata e incomprensibile: se siamo arrivati, tutti insieme, al varo del nuovo governo, è perché condividiamo la medesima analisi di fondo sul Paese, sui rischi e le opportunità, per l’Italia e per l’Europa, dell’attuale fase storica. E dunque, che senso ha dividersi, indebolirsi, mettere a repentaglio partito e governo, quando siamo d’accordo tra noi sull’essenziale? Come avrebbe detto Talleyrand, è peggio di un crimine, è un errore politico. Con l’aggravante dei futili motivi.