Come è possibile che un'amministrazione provinciale rinunci a un milione di fondi europei già stanziati e destinati ad attività di formazione e integrazione per stranieri (per lo più donne in isolamento sociale) che vivono sul suo territorio?
Barbara Poggio, 8 settembre 2019
È forse un problema di incapacità o inettitudine? In effetti non è la prima volta che fondi tanto ingenti vanno in fumo: è di pochi mesi fa la notizia della perdita di cinque milioni destinati dal ministero dell'ambiente al dissesto idrogeologico. Ma se in quel frangente il problema era stato il mancato rispetto dei tempi previsti dal bando ministeriale, qui lo scenario è differente, perché si ha a che fare con la scelta intenzionale di restituire fondi già stanziati.
In realtà pare piuttosto evidente che quella a cui ci troviamo di fronte rappresenti una ulteriore tappa del processo di smantellamento del sistema di accoglienza trentino e, più in generale, del progressivo stillicidio cui sono stati sottoposte nel corso di questo primo anno di governo tutte le diverse iniziative di eccellenza che miravano all'inclusione e alla valorizzazione delle diversità. Perché si tratta di obiettivi chiaramente invisi a questa amministrazione. Dalla cancellazione dei corsi di educazione alla relazione di genere, al taglio alle iniziative di cooperazione internazionale, alle promesse di epurazione dei rifugiati che lavorano nelle case di riposo trentine, fino al taglio dei finanziamenti per le iniziative contro l'omofobia. Una catena lineare di scelte che rispondono ad una stessa visione del mondo, serrata tra angusti confini di cognizione e consapevolezza, più ancora che di geografia.
Certo, in questo caso, la razionalità alla base del clamoroso rifiuto è facilmente intuibile e richiama un copione già visto altrove: non c'è infatti peggior insidia alcune forze politiche di un positivo inserimento dei migranti nel tessuto locale, che farebbe così venir meno il principale asset propagandistico, ovvero la paura dello straniero. Tuttavia questa decisione porta con sé alcuni effetti collaterali perversi, che forse richiederebbero maggiore accortezza e un supplemento di riflessione da parte di chi ha in mano le redini della provincia di Trento.
Il primo e più ovvio ha a che fare con le ricadute economiche e sull'occupazione. Può davvero, di questi tempi, una amministrazione provinciale permettersi di restituire finanziamenti pubblici giù assegnati per mero calcolo di consenso? Può davvero prendersi il lusso di buttare dalla finestra risorse che consentirebbero a molte persone - tra cui soprattutto giovani - che vivono su questo territorio di svolgere un lavoro dignitoso, qualificato e socialmente utile?
Il secondo riguarda le implicazioni sul piano dell'autonomia. Il successo dell'autonomia trentina si è basato a lungo su una gestione virtuosa delle risorse amministrate e sulla capacità di fare della propria specificità un punto di forza, divenendo un target di riferimento a livello nazionale in tema di inclusione, cooperazione sociale, solidarietà, pari opportunità. Detto altrimenti, chi guardava dall'esterno aveva l'impressione che il vantaggio economico riconosciuto a questo territorio fosse ben gestito e soprattutto utilizzato in modo non egoistico e autoreferenziale. Nel momento in cui questa tensione viene meno, si affievolisce dunque notevolmente il senso stesso dell'autonomia.
Il terzo, di più lungo respiro, riguarda invece il tipo di scenario futuro che si va così configurando per questa provincia. A poco serve infatti promuovere politiche per sostenere la permanenza delle giovani famiglie sul territorio, se poi, al contempo, si va consolidando l'immagine di una comunità chiusa, nostalgica, autoreferenziale, ripiegata su se stessa e sul proprio passato, incapace di riconoscere e fare i conti con le trasformazioni del mondo e della società. Non basterà infatti un sostegno per l'alloggio o un incentivo alla natalità a trattenere nelle valli del Trentino le generazioni più giovani, se la loro percezione sarà quella di soffocare dentro un piccolo mondo antico, stretto più ancora che dalle montagne, dai limitati e rigidi paraocchi di chi ha la responsabilità di governarlo.
Barbara Poggio