Guarda l’evolversi della crisi di governo dall’esterno, «curioso di vedere come andrà a finire». Michele Nicoletti, ex deputato del Partito democratico, ex presidente del Consiglio d’Europa, le vicende della politica romana le conosce bene, «ma questa volta ci sono evidenti anomalie».D. Baldo, "Corriere del Trentino", 24 agosto 2019
Immagino che la prima sia quella che ha originato l’alleanza Lega-5Stelle. Giusto?
«A inizio legislatura, nel 2018, non c’erano maggioranze omogenee. Si è quindi costruito un governo eterogeneo».
Che è durato poco più di un anno. Non era poi così imprevedibile la rottura tra Lega e 5 Stelle.
«Infatti non ha stupito nessuno l’apertura della crisi. Dopo le europee, con la Lega primo partito, era inevitabile. Ma hanno stupito i tempi».
Molti credevano che la crisi si sarebbe aperta in luglio, ma Salvini ha scelto agosto.
«E non a caso, perché così non si sarebbe assunto la responsabilità di una legge finanziaria. L’impressione è proprio questa, che sia scappato davanti alla responsabilità di una manovra che sarà impegnativa, che chiederà sacrifici».
Ci è riuscito a quanto pare, ora toccherà ad altri la patata bollente della finanziaria.
«E su questo mi sembra di capire che in fondo nessuno voglia assumersi responsabilità. I pariti non sono tanto entusiasti».
Nemmeno il Pd?
«Dico che qualche dubbio può nascere. Una maggioranza che non si sa se reggerà? Con Salvini che scatenerà la guerra contro l’establishment che impedisce al popolo di votare? Potrebbe fare il pieno di voti con questi argomenti».
Ma oltre alla finanziaria, in ballo c’è l’elezione del prossimo presidente della Repubblica . Con le elezioni, stando ai sondaggi, il centrodestra a trazione leghista avrebbe la maggioranza sufficiente a far da sé sia il capo dello Stato che una riforma costituzionale.
«Questo infatti è uno degli elementi importanti che spinge verso una soluzione che non passi dalle urne. Di fronte ad atti che ritengo eversivi messi in atto dal ministro dell’Interno Salvini, il punto di tenuta è proprio la presidenza della Repubblica».
Atti eversivi? Ho capito bene?
«Abbiamo avuto per la prima volta un ministro che si è rifiutato di riferire in Parlamento, mi riferisco alla questione dei rapporti con la Russia. Una cosa inconcepibile: questo rifiuto non è un semplice sgarbo istituzionale. Significa ritenere di non dover rendere conto a nessuno: la logica dei pieni poteri».
Un pericolo sufficiente, mi sembra di capire, per spingere verso un governo Pd-5 Stelle.
«Siamo in un momento imprevedibile, davvero. Vedendola dall’esterno la cosa difficile ma plausibile è proprio questo dialogo tra Pd e 5 Stelle».
Come si porta a casa?
«Anzitutto ci sarebbe bisogno di una linearità maggiore tra i due dialoganti, vedo invece molta ambiguità: Di Maio che non accenna al Quirinale alla possibile convergenza con il Pd, facendo così indispettire lo stesso Mattarella. Il Pd che da un lato dice andiamo a dialogare su 5 punti, poi ne vengono fuori 3, poi escono singoli esponenti ad aggiungere problemi più che soluzioni».
Tra gli esponenti che hanno preso la parola in queste ore c’è anche Matteo Renzi. Cosa pensa dell’ex premier che si riprende la scena?
«Penso che in una situazione così drammatica sarebbe più opportuno muoversi in modo coordinato, coeso, lineare. C’è il rischio che ci siano giochi di posizionamento personale che contribuiscono a rendere più complicata la trattativa».
Se la trattativa andasse in porto è possibile un governo di legislatura?
«Non lo escludo a priori. Certo, ci sono grandi temi che dividono ma c’è stato anche un cammino di maturazione, ad esempio sulla questione europea: i 5 Stelle hanno votato Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione. Poi ci sono tanti altri temi che uniscono: l’ambiente, la legalità, la lotta alla corruzione. Punti unificanti che devono prevalere su quelli che dividono».
La base dei 5 Stelle è in subbuglio, ma anche quella del Pd. Non teme che qualcuno, piuttosto che un «abbraccio mortale» con i grillini, preferisca andarsene?
«Dipende da come viene costruita questa ipotetica convergenza. Se diventasse un accordo di potere, se si rinunciasse ai valori della piattaforma politica del Pd, allora sarebbe scontata l’insoddisfazione della base. Ma se l’accordo diventa invece un atto di responsabilità, condiviso con il presidente della Repubblica, un patto di alto profilo, allora sarebbe diverso».
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