Forse scandalizzerò più di qualcuno, dalla mia parte e dall'altra. Ma sono abbastanza vecchio per potermelo permettere e soprattutto per sentire il dovere di farlo. Penso che, in un mondo ideale, i due fronti che si sono contrapposti, lo scorso fine settimana a Verona, si siederebbero attorno ad un tavolo e cercherebbero insieme un punto d'incontro. Sapendo che solo così si può fare davvero qualcosa.
Giorgio Tonini, "Trentino", 2 aprile 2019
Sapendo che solo così si possono far uscire le politiche per la famiglia dalle gabbie chiuse delle opposte propagande, per farle diventare decisioni concrete e fruttuose. Forse oso troppo, ma penso che è a qualcosa del genere che si riferisse il cardinale Pietro Parolin, braccio destro di Papa Francesco, quando ha detto che della manifestazione di Verona era condivisibile “la sostanza, ma non il metodo”.
Il metodo del dialogo, del compromesso alto e nobile, come alternativa allo scontro sterile e spesso strumentale tra guelfi e ghibellini, ha grandi precedenti nella travagliata vicenda politica del nostro paese. Senza riandare alla Costituente, che resta pagina esemplare di sintesi e mediazione alta tra visioni, anche sul tema del matrimonio, apparentemente inconciliabili, questo metodo fu praticato con successo nella riscrittura corale e largamente condivisa del nostro diritto di famiglia. Era l’anno del Signore 1975, appena pochi mesi dopo lo storico scontro sul referendum sul divorzio. Grazie alla sapienza delle grandi forze politiche (e dei e delle grandi leader) di quella stagione, i contendenti dell’aspra battaglia referendaria si misero attorno ad un tavolo e scrissero insieme quella che resta una delle più grandi riforme della nostra storia repubblicana.
Si dirà: altri tempi, altri protagonisti. Vero. Ma se ai nani non è consentito paragonarsi ai giganti, è invece caldamente raccomandato arrampicarsi sulle loro spalle. Del resto, di un nuovo dialogo sulle politiche familiari, contrariamente a quanto appare a prima vista, non mancano affatto solidi presupposti. Ad una sola, decisiva condizione: che si metta davanti a tutto non la domanda “da dove vieni?”, ma quella “dove vogliamo andare?” Se viene prima la domanda sulla provenienza, è ovvio che tra l’universo simbolico della destra religiosa, con tanto di “atei devoti” al seguito, e quello della sinistra laica e plurale, nella quale si mescolano credenti e non credenti, c’è assai poco in comune.
Ma se invece si mette davanti a tutto la domanda: “che cosa possiamo fare oggi in concreto a favore della famiglia e della natalità?”, a me pare che le distanze siano tutt’altro che incolmabili. Entrambe le piazze di Verona ed entrambi i gruppi dirigenti che le hanno radunate e arringate sanno che in Parlamento, quello di ieri come quello di oggi e quello del domani oggi prevedibile, non c’è alcuna maggioranza, tanto per fare qualche esempio, né per mettere in discussione la legge sull’aborto, né per il matrimonio omosessuale. E anche nel caso, ipotetico e irreale, che una maggioranza si trovasse, sarebbe la Corte costituzionale, con la sua consolidata giurisprudenza, a sbarrarle la strada.
Dunque non resta che lavorare ai margini. Dove peraltro si colloca il grosso del problema. Rafforzare le politiche di prevenzione dell’aborto, previste dalla legge 194 e mai del tutto attuate. E combattere le discriminazioni di genere e l’omofobia, anche attraverso il riconoscimento delle unioni civili, distinte e diverse dal matrimonio, come abbiamo saputo fare nella scorsa legislatura.
Soprattutto: sostenere la natalità, attraverso politiche per l’occupazione femminile, la conciliazione tra lavoro e famiglia e il sostegno fiscale di favore alle famiglie con figli. Chi può essere contrario a obiettivi come questi, di fatto largamente condivisi? Solo chi vuole usare la famiglia e la vita per farsi la campagna elettorale: passata la quale, tutto resta, ovviamente, tale e quale.