Luca Zeni è perplesso. Di più: «Sono preoccupato». Scorrendo i dati del piano di riduzione degli alloggi destinati ai richiedenti asilo sul territorio provinciale, l’ex assessore alle politiche sociali — oggi consigliere provinciale del Partito democratico — punta il dito sull’inversione di rotta rispetto al modello di accoglienza diffusa che aveva promosso nella scorsa legislatura.
M. Giovannini, "Corriere del Trentino", 25 febbraio 2019
E allarga le braccia: «Mi pare un’impostazione che risponde a motivi ideologici più che alla necessità di affrontare e gestire realmente la situazione».
Consigliere Zeni, lei parla di un ribaltamento dell’impostazione rispetto alla scorsa legislatura. In che senso?
«Il nostro piano, che tra l’altro era stato preso a modello anche dall’Anci, puntava soprattutto sulla necessità di evitare la concentrazione di persone nei centri più grandi, nei capoluoghi. Per questo si era deciso di creare, per la prima fase, due “polmoni” di accoglienza, alla Residenza Fersina di Trento e al campo di Marco di Rovereto. Per poi puntare, nella seconda fase, a una distribuzione diffusa sul territorio: un sistema che permette una maggiore accettazione sociale e un maggior coinvolgimento delle persone che arrivano in una nuova comunità. È evidente che se si promuovono dei percorsi di autonomia si costruisce qualcosa di più solido. Allontanando queste persone anche da eventuali rischi legati alla criminalità: rischi che potrebbero esserci invece nel caso in cui le persone vengano lasciate senza occupazioni. Il nostro piano, tra l’altro, era strutturato anche per far fronte a un eventuale calo di arrivi».
Che, oggi, il centrodestra rivendica.
«Al di là della propaganda di Salvini, va ricordato che il calo degli arrivi si è iniziato a registrare a luglio del 2017. Con effetti che erano arrivati anche qui da noi».
E quale strategia avevate programmato, in questo caso?
«L’idea era di prevedere in primo luogo lo svuotamento dei centri di prima accoglienza, vale a dire le caserme di Trento e di Marco di Rovereto. Lasciando invece le esperienze positive di integrazione avviate sul territorio».
La logica, oggi, è esattamente all’opposto: la linea dell’attuale amministrazione provinciale infatti è quella di ridurre prima le esperienze di accoglienza diffusa sul territorio, per poi occuparsi della situazione dei centri più grandi. Cosa ne pensa?
«Penso che non abbia alcun senso. Non capisco perché si debbano concentrare tutte le persone a Trento, con maggiori difficoltà per quanto riguarda la gestione del fenomeno. Sembra quasi lo facciano per dei motivi precisi».
Quali?
«In una sorta di contrapposizione tra città e valli, sembra quasi si voglia strizzare l’occhio di più alle valli. E, dall’altro, sembra che si voglia cercare di tenere alta la tensione in città, alimentando sempre la presenza del “nemico” da contrastare».
Molti amministratori locali sembrano però contrari a questa logica. Crede che i territori possano far sentire la propria voce?
«Non è un’epoca facile per esporsi e quindi capisco non sia automatico. Ma lo ribadisco ancora: l’impostazione deve essere di sistema. Far leva sulla divisione dei territori porta solo frammentazione».