Nel centenario dell’ «Appello al Paese» di don Luigi Sturzo, meglio noto come appello «Ai liberi ed ai forti», non si può accettare l’attuale spinta alla derubricazione di una parte importante, se non fondamentale al pari di quelle del liberalismo e del socialismo, della storia politica italiana.
Luca Zeni, "Corriere del Trentino", 22 gennaio 2019
Ridurre infatti oggi la memoria del popolarismo di radice cattolica ad un episodio accaduto e ormai concluso significa non aver colto la grande differenza che distingue il processo politico italiano da quello di larga parte dell’Europa.
Nel mondo anglosassone l’ispirazione rigida e incentrata sull’individuo del protestantesimo ha prodotto, nel corso dei secoli, il modello dell’alternanza bipolare, con un rapporto diretto tra eletto ed elettore molto marcato.
Nella travagliata vicenda del nostro Paese, l’esperienza del cattolicesimo popolare si staglia nella sua particolarità, perché dà vita a una pluralità della politica, attraverso l’individuazione di una cultura dei corpi intermedi e del «centro moderato» che, per decenni, ha saputo interpretare, in modo interclassista e non populista, larga parte dell’opinione pubblica e della cultura italiana, partecipando, dapprima al moto resistenziale, poi alla costruzione democratica repubblicana e, infine, generando figure di levatura internazionale e di rilevanza storica come Alcide Degasperi e Aldo Moro.
Difficile dire se la tendenza bipolare proposta con la «Seconda Repubblica» sia stata causa o conseguenza del venir meno di un partito unico capace di rappresentare il cattolicesimo e il concetto di centro, invece di radicalizzare la scelta fra destra e sinistra. Un quadro di nuovo mutato oggi, con il confuso orizzonte nazional-populista che si diffonde un po’ ovunque in Europa e che in Italia ha portato ad un sostanziale tripartitismo.
A cent’anni dall’appello di don Sturzo, forse una rilettura e una rivalutazione di quell’esperienza potrebbe essere utile a tutte quelle forze politiche che ne hanno assorbito la dissoluzione, ad iniziare dal Partito democratico che più d’altri ha raccolto e provato a interpretare quel vasto bagaglio di culture e di narrazioni. Non con l’atteggiamento nostalgico di chi rimpiange un «grande centro» ma recuperando spirito e obiettivi di quell’impostazione.
Pensiamo alla scommessa sul protagonismo della libertà e la sua coniugazione con i valori della democrazia, in una visione alternativa alle estremizzazioni degli opposti, o all’incontro fra pragmatismo di governo e necessità di un «pensare alto». Pensiamo allo stile, all’approccio dialogico e relazionale, alla capacità di approfondimento, così lontano dalla superficialità e dal «non m’importa» che caratterizza l’arroganza dei governi nazionali e provinciali oggi. E cos’era, se non questo, quella «vocazione maggioritaria» a cui si richiamava il nascente Partito democratico? Non certo la pretesa di voler da soli superare il 50% dei voti, ma la convinzione che si potesse in un grande partito riformista rappresentare un’idea di società, e non soltanto gli interessi di una parte.
L’esperienza del popolarismo fu un modello di convivenza e di dialogo al quale pare difficile rinunciare; un modello che poco ha a che vedere con la politica twittata e guidata dall’urgenza delle propagande, mentre molto insegna ancora a chi ritiene la politica come luogo della contemperazione delle differenze e dell’elaborazione di risposte valoriali e materiali adatte a sempre migliorare l’esistenza dell’uomo e la convivenza con i suoi simili. Sarà l’impegno e la perseveranza di tutti coloro che credono che le case solide si edificano non con superficiali proclami, ma con attenta diligenza e costanza, a consentire anche al Trentino di ritrovare e rinnovare il suo cammino.