Romano Prodi, "L'Adige", 26 marzo 2010
La generazione di Adenauer, Schumann, De Gasperi si forma negli anni di Pio XI e in un clima nel quale nemmeno la Chiesa capisce che sempre e subito lo scambio offerto dai totalitarismi - anticomunismo in cambio di dittature - è un tragico inganno.
C'è una fede e una sensibilità religiosa li accomuna anche se, essi, quando danno concretezza alla loro idea d'Europa non aspettano (e nemmeno ricevono) avalli ecclesiastici di sorta. È un punto che mi preme perché - lo posso dire come ex studente della Università Cattolica - ho fatto in tempo ad essere partecipe di una scuola di formazione delle coscienze che preparava a rispondere con grande senso di responsabilità e rischio personale alle situazioni e alle scelte. A rispondere sulla base di una formazione di una coscienza adulta, che era uno dei punti chiave della nostra formazione cattolica. Al tempo stesso, però, una coscienza senza uno strumento politico rimane sul piano privato: se non avessimo avuto l'idea di Europa, prima o poi il comparire di altri interessi ci avrebbe riportato indietro. E anche lo stesso obiettivo di evitare le tragedie della guerra prima o poi diventa impossibile se non si costruiscono gli idonei strumenti politici.
La forza della generazione uscita dalla guerra è stata quella di associare una struttura spirituale solida a una idea politica che ha permesso - è la prima volta dalla fine dell'impero romano - di avere tre generazioni che non hanno conosciuto la guerra. Ricomporre tutte le nostre nazioni in un comune progetto europeo ha funzionato: non possiamo negarlo.Possiamo quindi criticare l'attuale impasse, ma la situazione è oggi infinitamente migliore di quella che potrebbe essere. Ciò tuttavia non diminuisce il bisogno di leader che si sforzino di comporre l'interesse del loro paese con quello europeo.
Ricordo Helmut Kohl che diceva: «Molti dei miei cittadini sono contro l'euro, però io voglio l'euro perché, caduto il Muro di Berlino, dev'essere chiaro che non vogliamo un'Europa germanica ma una Germania europea». Questa è leadership. E io stesso nel mio primo governo, lanciai il messaggio provocatorio di una tassa per l'Europa, in modo da rendere esplicito che se l'Italia non avesse avuto la capacità di entrare nell'euro, pagando il doveroso prezzo, sarebbe rimasta schiava di vizi e squilibri storici.
Ciò che oggi appare drammatico è che ogni paese guarda all'Europa per massimizzare i propri guadagni: obiettivo legittimo solo se è compatibile con un progresso dell'Europa come tale. È su questo piano che l'esperienza religiosa può rivelarsi una risorsa di utilità generale: che la sensibilità peculiarmente universalista del cristianesimo, che relativizza i nazionalismi e gli identitarismi può servire a tutti nel costruire regole di vita comuni in cui tutti possano vivere in modo libero e reciprocamente responsabile.
Io sono nato nel 1939. Nella mia adolescenza, la ricostruzione, la speranza, tutto si chiamava "Europa". Per un ragazzo cattolico c'era una sovrapposizione fra l'attesa di una pace europea stabile e la fiducia nella fratellanza dei popoli: un senso spontaneo di speranza che era al tempo stesso assorbente e mai messo in dubbio. Proprio grazie a quella forza e a quella condivisa fiducia perfino il comunismo appariva alla mia generazione come un fatto esterno ed estraneo. Una parte di noi di fronte al comunismo aveva sposato un'opzione puramente ed esclusivamente anticomunista. Ma sul piano politico nemmeno l'anticomunismo è stato in grado di separare in modo definitivo l'Europa: si spiega così il fatto che la mattina dopo la caduta dei regimi comunisti, l'Europa si sia sentita ricomposta in una sua armonia quasi naturale. Certo molte ideologie, anche se riferite al passato, esercitano la loro influenza anche in tempi successivi.
L'opzione semplicemente e radicalmente anticomunista era giustificata e quasi ovvia nel periodo della guerra fredda. È un paradosso del tutto italiano constatare come l'anticomunismo più "puro" e più "ideologico" si sia affermato solo dopo la definitiva morte del comunismo. Ma forse non si tratta di un paradosso in quanto anche l'anticomunismo "puro" e "ideologico" si basa sull'idea che la paura sia un elemento unificante. Tuttavia, come dice il nunzio in Italia, monsignor Giuseppe Bertello, chi semina paure perde presto la possibilità di governarle.
In questo contesto le chiese hanno la grande occasione di portare una spinta etica unificante, di essere il lievito di una aspirazione di pace in una società pluralistica nella quale la capacità di mediare - che è il cuore della politica - sia valorizzata nella visione di un orizzonte più vasto e di un futuro più lungo. La Chiesa cattolica in modo particolare ha su questo piano una vocazione peculiare che le deriva proprio dal fatto che alcuni dei suoi figli sono stati protagonisti di quella stagione di convergenza che ha regalato al continente una pace di inedita durata.
In questo l'episcopato europeo ha dato prova di sé in diversi modi. Pensate al modo in cui Giovanni Paolo II ha sostenuto il processo di unificazione e di allargamento, riuscendo a leggere nel crollo dei regimi comunisti senza spargimento di sangue qualcosa che impegnava tutta la sua Chiesa. Pensate all'episcopato tedesco che ha mantenuto aperto un dialogo con l'altra Germania e ha sostenuto le scelte del cancelliere Kohl sulla riunificazione con la lungimiranza di cui il cardinale Lehmann è stato l'emblema. E ricordo con gratitudine la continua e proficua collaborazione con la Conferenza episcopale tedesca durante tutti gli anni della mia presidenza alla Commissione europea con l'intento di rafforzare i contenuti etici e spirituali dell'Unione. Si potrebbe citare inoltre lo sforzo del cardinal Martini per la nascita di un organismo ecumenico di vescovi europei e il positivo ruolo in tale senso giocato dai cardinali Danneels o Lustiger.
Naturalmente non tutti hanno ritenuto di condividere questo disegno fondato sul dialogo e sulla mediazione. In questa direzione ho infatti incontrato difficoltà non marginali nella mia attività di governo durante la quale il presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini, forzando il concetto di non negoziabilità dei principi ha, con grande abilità politica, impedito ogni possibilità di mediazione su alcuni temi riguardo ai quali una saggia mediazione è assolutamente necessaria per la convivenza civile e per la concreta applicazione dei principi stessi. Sono inoltre personalmente convinto che sia il dialogo a rendere più fecondo il messaggio del Vangelo.
Le Chiese sanno più di altri che il nodo del futuro della politica è quello della saggia mediazione culturale: una capacità di trovare equilibri dinamici che, senza compromettere e senza confondere principi, valori e convinzioni, guardi alla società pluralistica come a un dono. Così in una appartenenza alla propria famiglia religiosa cosciente e gioiosa, osservante e umile, ciascuno possa capire qual è il suo posto come membro di una società pluralistica, che cerca di accordarsi nei modi e forme diverse a seconda delle necessità, rendendo con questo più facile il perseguimento del bene comune.
Se questo slancio verrà da risorse interiori, bene: se no verrà da altre parti, perché l'Europa deve andare avanti e andrà avanti. Io non mi auguro che la spinta venga da qualche grave crisi - ma sento di poter dire che se non ci saranno spinte ad andare avanti, una crisi potrebbe diventare il motore che fa ripartire un progetto politico capace di catalizzare energie economiche, intellettuali e spirituali. Un progetto fortemente puntato sul pluralismo che crei emozione e speranza nella gente, da opporre a quei progetti che cercano di puntare su identità che dividono e sulla paura. Negli anni fra le due guerre, il nazionalismo era alimentato dall'illusione di una centralità dell'Europa: si sottovalutava ampiamente la potenza economica e militare degli Stati Uniti. Il grande progetto europeistico della seconda metà del secolo XX invece si basa sulla consapevolezza che proprio la complessità del mondo - oggi molto accresciuta dalla definitiva emersione della Cina, dallo spostamento del baricentro mondiale nell'area pacifica, dalla visibile impossibilità di tenere l'Africa per generazioni e generazioni in una condizione subumana - richiede un messaggio unificante.
Oggi l'Europa non ha più la centralità di un tempo ma, soprattutto, ha sempre meno un messaggio unificante da proporre, se non quello banalmente populista. Un populismo che ne diminuisce l'autorità nella considerazione del mondo e la rende irrilevante perfino su quei quadranti (pensate al Medio Oriente) che le sono contigui. Ma questa situazione critica può aprire nuove opportunità, dimostrando che c'è bisogno di cambiare mentalità, di essere capace di pagare un prezzo serio in termini di riconoscimento dell'altro. La Chiesa può insegnare questa nuova mentalità, con una pedagogia positiva, che sappia dosare i no e accompagnare una società in tumultuosa trasformazione. Oggi che non siamo più tutto, bisogna saper pensare parole di pace e dire per tempo parole di pace.