Flat tax al 15 per cento, diceva uno. Riduzione dell’Irpef, rispondeva l’altro. Deduzione fino a 10 mila euro. Via le accise sulla benzina. Tassa al 15 per cento anche per le imprese. Riduzione di cuneo fiscale e Irap per le Pmi. Via il bollo auto. Abolizione delle imposte di successione. Sterilizzazione dell’Iva. E via dicendo.
Lorenzo Borga, "Il Foglio", 26 novembre 2018
Le promesse sulle tasse hanno caratterizzato la campagna elettorale verso il 4 marzo 2018. Ogni settimana Movimento 5 stelle e Lega proponevano qualche nuova misura di sgravio e semplificazione. Miliardi, decine di miliardi. Roberto Perotti su Repubblica ne aveva stimato i costi: 28 miliardi di euro per il Movimento 5 stelle e ben 75 miliardi per la Lega, solo per il taglio delle tasse proposto nei due programmi elettorali (a cui vanno aggiunti i 12,5 miliardi per la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, che Perotti non prende in considerazione). Misure che, sommate nel contratto di governo, hanno raggiunto il costo di quasi 70 miliardi di euro. Le due forze sono oggi al potere e hanno la possibilità di tenere fede alle promesse fatte. La legge di bilancio ha in effetti mobilitato diverse decine di miliardi, permettendo uno sforamento di 1,6 punti del deficit rispetto alle previsioni, circa 22 miliardi. Un tesoretto, richiesto alle future generazioni, che avrebbe potuto essere impiegato per ridurre la pressione fiscale in un paese come l’Italia in cui le imposte sono molto elevate: secondo l’Ocse nel 2016 eravamo sesti nell’Unione europea, dietro a paesi con un sistema di welfare ben più sviluppato (Danimarca, Finlandia e Svezia). Il maggiore deficit sarà invece utilizzato per altre priorità: reddito di cittadinanza e quota 100 – spesa pubblica corrente, di natura assistenziale – assorbono circa 7 miliardi ciascuna per almeno due anni. E le tasse?
Secondo la narrazione della maggioranza, caleranno. Di Maio e Salvini anzi giustificano l’aumento dell’indebitamento proprio con lo scopo di ridurre le imposte, rilanciare l’economia e “dire basta all’austerità” (che in Italia non c’è da anni). L’esecutivo sembra essersi concentrato in particolare sulla tassazione sulle imprese: oltre alla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia (come accade dal 2014 in poi), si propone di ampliare il regime dei minimi per le partite Iva e di introdurre un’Ires ridotta al 15 per cento per gli utili reinvestiti in investimenti privati e nuova occupazione. Misure che per l’anno prossimo costeranno al ministero dell’Economia la bellezza (si fa per dire) di 1 miliardo e 400 milioni di euro. Dopo le mirabolanti promesse della campagna elettorale, Lega e Movimento 5 stelle propongono una riduzione di imposte pari al 2 per cento di quanto promesso (percentuale che sale al 20 per cento considerando l’azzeramento delle clausole di salvaguardia). Eppure le tasse erano una priorità per Luigi Di Maio, quando ha affermato di voler seguire l’esempio della riforma fiscale di Donald Trump. Il presidente americano ha però portato a casa una riduzione del 14 per cento dell’imposta sulle imprese. L’Italia di Di Maio e Salvini propone invece una legge di bilancio che non modifica la pressione fiscale, ferma al 41,8 per cento nel 2019 secondo lo stesso documento inviato dall’esecutivo a Bruxelles
Dopo le tante promesse in campagna elettorale, sono numerosi gli istituti indipendenti di controllo che hanno certificato l’assenza del taglio delle imposte sperato da imprese e famiglie. Di flat tax non se ne parla più: durante l’estate i leghisti promettevano la riduzione al 15 per cento per le imprese, per poi concentrarsi sulle famiglie dal 2019. Una misura che sarebbe costata complessivamente circa 50 miliardi di euro all’anno. Il risultato è stato invece l’introduzione in legge di bilancio di tre articoli contenenti il numerino magico che ha contraddistinto la narrazione di Matteo Salvini: 15 per cento sui ricavi per le partite Iva con un fatturato fino a 65 mila euro (e dal 2020 un’altra aliquota al 20 per cento tra 65 e 100 mila euro), 15 per cento sugli utili d’azienda reinvestiti, 15 per cento sui guadagni degli insegnanti dalle ripetizioni extra-scolastiche. Seppur la percentuale possa trarre in inganno, non si tratta di misure che istituiscono un regime flat tax, né ne costituiscono il presupposto. Anzi, i regimi agevolati e le aliquote sostitutive sono proprio gli strumenti fiscali che i sostenitori dell’aliquota piatta – come Dario Stevanato che sulla flat tax ci ha scritto un libro – criticano di più, poiché fonte di complessità, iniquità orizzontale e distorsioni delle decisioni di imprese e famiglie.
Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, infatti, il nuovo regime potrebbe incentivare i lavoratori autonomi a non produrre più reddito, oppure a evadere: gli scalini che si verranno a creare oltre i 65 mila euro e oltre i 100 mila euro determineranno salti di aliquota marginale superiori al 100 per cento. Cosa significa? Semplice: se il fatturato supera gli scalini, il costo delle maggiori tasse sorpassa l’aumento del fatturato. Fatti i conti si tratterà dunque di un costo netto, che tutti i sistemi fiscali tentano di evitare (l’Irpef per esempio ha gli scaglioni, con cui viene tassato con l’aliquota successiva solo il reddito eccedente la soglia, non tutto il reddito complessivo). Il rischio di incentivare le imprese a restare piccole è alto, mentre l’equità orizzontale tra un lavoratore autonomo e un dipendente o pensionato peggiora ulteriormente. Ma non solo: oltre al danno, c’è la beffa. Per finanziare il nuovo regime per le partite Iva a più basso fatturato, è stata abolita un’altra riduzione di imposta. Infatti, dal prossimo anno non entrerà in vigore l’Iri, l’Imposta sul reddito dell’imprenditore, che avrebbe equiparato la tassazione delle società di persone a quella delle società di capitali, al 24 per cento. Si tratta di una misura di cui avrebbero beneficiato, secondo Lavoce.info, poco meno di 300 mila imprese individuali e società di persone, che rimarranno soggette agli scaglioni Irpef.
Il governo ha modificato sostanzialmente anche le misure sugli investimenti privati delle imprese, introducendo l’agevolazione Ires al 15 per cento e rifinanziando la “Nuova Sabatini”. Misure che valgono poco più di 1 miliardo di euro all’anno. D’altra parte però vengono cancellati l’Ace (Aiuto alla crescita economica) e il superammortamento e rivisto al ribasso l’iperammortamento. Si tratta di quasi 3 miliardi di risparmi nel 2020. E’ una revisione sostanziale degli strumenti del piano Industria 4.0 curato dall’ex ministro Carlo Calenda. Un piano che, nonostante tutto, aveva portato a primi incoraggianti risultati: nel 2017 gli investimenti innovativi, in macchinari e apparecchiature elettroniche, sono aumentati dell’11 per cento rispetto all’anno precedente. Ma, secondo l’Istat, le nuove misure del governo Conte non compenseranno il taglio degli sgravi cancellati. Circa il 37 per cento delle imprese risulterà svantaggiato, mentre solo il 7 per cento ne trarrà vantaggio; l’aggravio medio di imposta sarà invece pari a un paio di punti percentuali. Non solo: le misure aumenteranno anche il costo del capitale, in un paese come l’Italia in cui gli investimenti privati e l’accesso al credito sono complicati.
L’effetto totale delle misure fiscali introdotte dal governo lo ha stimato l’Ufficio parlamentare di Bilancio: si tratta di 6,1 miliardi di aumento del carico tributario nel 2019, che invece scende di mezzo miliardo nel 2020 e di quasi 2 nel 2021, quando le misure espansive mostreranno i primi effetti. L’aumento monstre per il primo anno è anche dovuto all’aumento delle tasse su banche e assicurazioni. Misure che secondo il presidente dell’associazione di categoria“drenano liquidità in maniera consistente e rappresentano un ulteriore sacrificio” del settore. Il rischio è che l’aumento si ripercuota sui clienti delle banche – cioè imprese e famiglie – in un periodo di generale aumento dei tassi di interesse e delle commissioni bancarie dovuto alla pressione dello spread. Per di più, il risultato dell’esame dei tecnici non tiene conto dei possibili aumenti delle imposte locali. Fino a quest’anno, addizionali comunali e regionali erano rimaste bloccate su decisione del governo. Dal 2019, secondo la legge di bilancio, gli enti locali potranno aumentare i tributi fino ai livelli massimi. Secondo il Sole 24 Ore si tratterebbe di quasi 7 mila comuni.
Il governo giustifica l’aumento del deficit anche con una riduzione delle imposte che non esiste nei fatti, almeno per il 2019. Ci si aspettava di più: i due vicepremier in questi anni hanno duramente criticato i governi guidati dal centrosinistra per non aver abbassato a sufficienza i tributi (dal 2013 la pressione fiscale si è ridotta dal 43,6 al 42,7 per cento, al lordo degli 80 euro). La parola “tasse” si trova 14 volte nei tweet di Di Maio e ben 55 tra quelli di Salvini. Oggi però ci propongono una legge di bilancio che nella migliore delle ipotesi non aumenterà la pressione fiscale (stima del governo), e nella peggiore incrementerà la tassazione di 6 miliardi di euro (stima indipendente Upb). Davvero troppo poco per chi da anni propone la luna.