Michele Nardelli, 19 marzo 2010
Avverto un certo stridore fra le notizie che ci giungono in queste ore dalla Palestina e la ricerca di dialogo proposta con l’iniziativa “Officina Medio Oriente” che si sta svolgendo in Trentino.
Quasi un grido disperato per dare voce alla cultura nelle più svariate forme espressive, dalla letteratura al teatro, dal cinema alla musica, dalla valorizzazione dei saperi materiali alla riflessione… soffocato dal sordo rumore delle armi e della violenza.
Mi sono chiesto più volte in questi giorni, di fronte all’annuncio di migliaia di nuovi insediamenti illegali a Gerusalemme est, se tutto questo sforzo per trovare qualche punto in comune fra popoli in conflitto non potesse risultare ingenuo, persino ipocrita. Quasi a non voler vedere una realtà che va nella direzione opposta a quella che vorremmo.
Potremmo prendere parte, disarmati s’intende, ad un conflitto infinito, schierandoci dalla parte dei più deboli, per poi dover prendere amaramente atto che la logica dei più forti ha il sopravvento. Qualcun altro potrebbe illudersi che l’annichilimento dell’avversario possa rappresentare la cancellazione del problema. Mentre sappiamo che così il conflitto non troverà certo soluzione, covando negli animi il rancore, come nei racconti famigliari. In attesa di riesplodere.
Questa strada, pure percorsa, non ha funzionato e non funziona. Si possono erigere muri, per poi accorgersi che in prigione si sta da entrambi i lati, respirando la stessa aria. Non dimenticherò mai quando, riflettendo su queste cose, il mio amico Ali Rashid mi raccontò che il mito ricorrente fra i poliziotti dell’Autorità nazionale palestinese erano i soldati israeliani, perché meglio armati di loro. Quando la storia s’incaglia, bisogna provare ad indagare percorsi diversi. Mentre tutto va secondo la logica del “tu, da che parte stai?”, occorre scartare di lato, sparigliare, “tradire”.
Rendersi conto che se la cornice è profondamente cambiata, che se la dimensione globale non ha solo reso il mondo più interdipendente ma ha ridislocato poteri e delineato nuovi orizzonti, corre l’obbligo di interrogarci se le rivendicazioni di ieri non siano diventate oggi prive di senso. Ed immaginare la pace “oltre i confini”.
Insomma, provare altre strade. Il Trentino in questi anni è stato un luogo di grande e generosa attenzione verso la solidarietà internazionale e, insieme, di sperimentazione di forme originali di cooperazione internazionale fondate sul valore della relazione, che poi vuol dire prossimità (conoscenza), reciprocità (specchiarsi nell’altro) ed elaborazione dei conflitti (costruire tratti di narrazione condivisa). Un luogo di elaborazione sui temi della pace e della nonviolenza, ricercando le vie che possano gettare basi nuove ai processi di pace.
Indicando – ad esempio – nel tema dell’autonomia piuttosto che nella proliferazione di nuovi confini una possibile chiave per abitare un tempo necessariamente post-nazionale. Uno scarto di pensiero che è già iscritto nelle esperienze più originali che la storia prova a darsi. Penso all’insurrezione delle popolazioni indigene del Chiapas che hanno saputo rivendicare l’autogoverno ma non l’indipendenza, prevenendo così un esito che l’uso della forza avrebbe dato per scontato, mantenendo aperta la contraddizione ed esercitando livelli crescenti di autonomia. Accadeva nel gennaio 1994, quando invece nel cuore dell’Europa le rivendicazioni nazionali dilaniavano nel sangue la vecchia Jugoslavia.
Penso al fatto che anche questa nostra stessa terra è stata divisa da storie di confini, rivendicazioni territoriali, colonizzazione. E che mai si rifletterà abbastanza sul significato dell’accordo Degasperi Gruber come l’introduzione di un fattore nuovo (l’ancoraggio internazionale della questione sudtirolese) nel porre le condizioni per un’autonomia dinamica e per un contesto di autogoverno che oggi viene studiato in tutto il mondo.
Ecco perché questa terra può oggi fare da cornice alla Carta per l’autonomia del Tibet, proposta nel convegno internazionale che ha visto nell’autunno scorso la presenza in Trentino del Dalai Lama, laddove si pone l’autogoverno della regione tibetana nell’ambito di confini sovranazionali. Tema sul quale ha mostrato uno straordinario interesse anche la leader del popolo uiguro (Xinjiang cinese) Rebiya Kadeer nella sua recente visita in Trentino – Alto Adige / Sudtirol. Come non è un caso che, di fronte all’incagliarsi del diritto internazionale fra sovranità territoriale e autodeterminazione nazionale, da qui sia venuta la proposta di fare del Kosovo una regione europea con uno status del tutto originale.
Per queste stesse ragioni, di fronte ad un conflitto infinito quanto doloroso come quello israelo-palestinese, dobbiamo provare ad interrogarci – come abbiamo cercato di fare in questi giorni nell’Officina Medio Oriente – se anche in Terrasanta una nuova strada non possa essere percorsa, pensando la pace oltre tutti i confini, quelli orribili di cemento armato e di filo spinato e quelli, non meno resistenti, che abbiamo dentro di noi.
Fatichiamo a farlo, perché mentre prendiamo coscienza che la globalizzazione sta cambiando gli scenari precedenti, con il pensiero siamo ancora largamente immersi nel Novecento. E perché siamo più portati a dividere il mondo fra buoni e cattivi che ad abitare i conflitti. Non cancelliamo la storia, i soprusi, il dolore. Impariamo a riconoscerli invece e cerchiamo nel contempo di provare ad immaginare scenari inediti. A partire da noi, da un’Europa che deve elaborare il Novecento ed insieme ritrovare le sue radici mediterranee. Perché l’Europa o sarà un progetto post-nazionale, o non sarà.