Innanzitutto vorrei aprire i lavori di oggi pomeriggio rinnovando i nostri auguri affettuosi di pronta guarigione a un grande italiano e a un padre della nostra storia e del nostro impegno come Giorgio Napolitano. Salutiamo con affetto lui e tutta la sua famiglia.Maurizio Martina, 4 maggio 2018
Questa direzione è chiamata a un confronto franco e sincero a due mesi dal voto che ci ha consegnato purtroppo una sconfitta netta come mai era accaduto nella nostra storia. Un voto, quello del 4 marzo, che ha ridisegnato in modo radicale il panorama politico del Paese e che ci pone domande cruciali sulla nostra capacità di comprensione della società italiana e sul nostro destino. Sul destino del Partito Democratico ma anche di tutto il campo del centrosinistra. Vorrei che la nostra discussione ripartisse da qui perché non possiamo rimuovere quello che è accaduto ma abbiamo l’assoluta necessità di riflettere e analizzare per capire. E cambiare. Ci sono faglie di cui rendersi conto prima di essere fuori tempo massimo. Nel 2008 il Partito Democratico prese 12 milioni di voti, nel 2013 circa 8,6 milioni. Il 4 di marzo scorso ci siamo attestati sui 6 milioni e centomila voti. Rispetto al 2008 perdiamo 6 milioni di consensi, rispetto al 2013 2 milioni e 400mila voti. Non va certo meglio alla coalizione e nello scenario tripolare che abbiamo davanti sappiamo quanto sia fragile tutta l’area di riferimento del centrosinistra. Secondo le analisi negli ultimi 5 anni circa 20 milioni di italiani hanno cambiato comportamento di voto accentuando vertiginosamente la propria mobilità elettorale. E se guardiamo a casa nostra, le rilevazioni ci dicono che perdiamo quasi 2 milioni di voti verso l’astensione, poco più di 1 milione di voti verso i 5 Stelle, circa 1 milione e mezzo di voti verso altri partiti (dati Tecnè). E dietro le grandi tendenze statistiche, dietro i numeri e le percentuali, ci sono le ragioni delle scelte compiute dagli italiani. Proviamo a studiare e a capire insieme. Proviamo a non nasconderci questi dati. Ci sono due grandi questioni che hanno condizionato gli orientamenti elettorali: le sofferenze per il disagio economico e sociale provocate ancora dalla più lunga crisi dal dopoguerra; il diffuso sentimento di paura e di vulnerabilità nel tempo dell’insicurezza, dell’incertezza e della solitudine che viviamo. Anche qui, vale la pena di guardare qualche numero e qualche studio per riflettere. Quasi il 46% dei cittadini dichiara di non potersi permettere una settimana di ferie all’anno, il 43% dice di non riuscire a fare fronte a spese impreviste, il 42% ritiene inadeguate le proprie risorse economiche in famiglia. E sul fronte della paura e della vulnerabilità: il 39% dei cittadini ritiene elevato il rischio di criminalità dove vive e il 33% di essi giudica degradata la zona in cui abita.
Sempre secondo queste analisi il 39% dei precari e il 50% dei disoccupati hanno scelto il voto ai Cinque Stelle mentre noi abbiamo prevalso solo tra i pensionati e otteniamo le percentuali più basse proprio tra i senza lavoro.
E anche la composizione territoriale del voto ci indica molti elementi di comprensione.
Tornano ad affacciarsi per noi sia la questione settentrionale che quella meridionale con le loro peculiari caratteristiche.
Al nord prevale – in forma nuova – il messaggio antitasse e securitario della Lega sovranista che raccoglie consensi anche tra i vincenti della globalizzazione del ceto medio che vive da sempre nel mercato.
Il sud risponde alla domanda di cambiamento affidandosi alla ricetta dei Cinque Stelle.
Se vogliamo ripartire, bisogna guardare in faccia tutto questo.
E compiere insieme una vera autocritica rispetto a ciò che non siamo stati in grado di fare e rispetto a ciò che non abbiamo compreso che si stava muovendo in profondità nel paese.
Vale per il 4 marzo ma anche per il referendum costituzionale del 4 dicembre e persino per il nostro clamoroso risultato alle europee del 2014.
Probabilmente se avessimo riflettuto di più sulle ragioni di quella vittoria avremmo avuto più strumenti per evitare le sconfitte successive.
E’ certo che in quella occasione la domanda di cambiamento trovò proprio nel PD l’interprete naturale.
Abbiamo la responsabilità di una analisi collettiva di questi anni.
Anche per difendere con serietà e orgoglio il tanto di buono che è stato fatto e che continuo a pensare vada rivendicato a testa alta.
Ora che si naviga a vista tra improbabili vincitori, noi possiamo presentare con credibilità i risultati dei nostri governi.
Certo non sono stati sufficienti a medicare le ferite profonde della crisi, ma rimangono passi avanti cruciali su fronti decisivi: da quello economico, al governo complesso delle migrazioni, all’affidabilità europea e internazionale dell’Italia.
Ed è indispensabile riflettere sul perché i consensi alla nostra azione di governo non si sono tradotti in voti per il nostro partito.
Certo il punto non è che gli italiani non ci hanno capito.
Il punto è che abbiamo sbagliato alcune delle risposte fondamentali ai nuovi bisogni che sono emersi.
Bisogni di ascolto, di protezione e tutela. Bisogni di accompagnamento e di cura.
Mi è chiaro anche che la questione non si riduce a un programma o a una campagna elettorale e ai suoi slogan.
C’è bisogno di una rifondazione dell’analisi e del pensiero che è anche una gigantesca sfida culturale oltre che politica.
Non è certo solo una questione italiana ma come evidente a tutti è un tema che investe la sinistra e il campo progressista in particolare in tutto il mondo occidentale.
E torna tutta, ora, questa questione tanto più di fronte al nuovo scenario politico di casa nostra.
E torna tutta perché la domanda da cui partire rimane una, prima di tutto: qual è il nostro ruolo verso la società italiana, verso il Paese? Chi vogliamo rappresentare? Cosa vogliamo essere?
Come rendiamo credibile e possibile il PD come forza di trasformazione e cambiamento della società e non invece – come spesso siamo apparsi – soggetto elitario e del potere?
Penso abbia ragione chi ci ha messo in guardia da un rischio.
Quello che nel bipolarismo sociale che si sta determinando tra vincenti e perdenti della globalizzazione noi veniamo riconosciuti solo da una parte dei primi e sempre meno invece dai secondi.
Ma la sinistra non è, se non parte prima di tutto proprio da loro.
E questo ragionamento non riguarda solo i più deboli ma anche classi medie e figure emergenti che non hanno trovato in noi una risposta adeguata alle loro insicurezze.
Ecco perché non credo che ce la caveremo solo con qualche mossa tattica.
Ed ecco perché penso che anche il post 4 marzo debba per noi muovere più dalle ragioni sociali della sconfitta che non da altro.
Tommaso Nannicini ha parlato secondo me giustamente anche della insufficienza della nostra narrazione emotiva.
Serve davvero un nuovo inizio per questo progetto. Non tornare indietro e non andare oltre. Ma riprogettare per ripartire.
Serve un suo ripensamento generale a partire da questioni essenziali: la democrazia rappresentativa e la crisi del rapporto tra politica e cittadini, una nuova idea dello sviluppo perché sia davvero equo socialmente e sostenibile, il ruolo dell’Italia in Europa e il suo protagonismo del mondo globale.
E serve un ripensamento netto anche su come si fa partito.
Su come si sta insieme. Su come ci si riconosce. Su come ci si confronta e si prendono decisioni dopo essersi ascoltati e confrontati con la voglia di costruire una risposta comune.
Da noi non possono esistere liste di proscrizione, da qualunque parte essere provengano!
Spesso noi siamo più feroci con noi stessi che non con i nostri avversari. Basta.
Non tutto poi si può risolvere sempre con la logica dei rapporti di forza. Non tutto può essere compresso nella partita dei nostri schieramenti interni di correnti, gruppi, aree.
Non tutto è riassumibile nella forza o nella debolezza di un leader.
E serve una riflessione anche del nostro posizionamento.
Un’idea nuova di coalizione e delle possibili alleanze nel campo del centrosinistra e delle forze riformiste, cercando sopratutto forze nuove, tanto più di fronte alla persistenza di due offerte alternative alla nostra oggi chiaramente più forti di noi su scala nazionale.
Sopratutto se si immaginano sistemi elettorali a doppio turno, occorre fare questo sforzo di prospettiva se non vogliamo rischiare l’irrilevanza.
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Ho condotto questi due mesi provando a praticare nei fatti sempre l’unità.
Rivendico questo impegno. Per me la collegialità è un valore.
Ho ascoltato tutti e provato a definire punti di equilibrio necessari per andare avanti.
Seguendo il mandato dell’ultima direzione, sempre unitariamente anche insieme alla nostra delegazione, abbiamo affrontato tutte le consultazioni a cui siamo stati chiamati.
E la stessa unità d’azione l’abbiamo condivisa con il gruppo dirigente fondamentale sempre nel rispetto di dubbi e differenze.
Abbiamo fatto bene a riconoscere l’onere della prova di governo alle forze che hanno prevalso il 4 marzo sottraendoci da qualsiasi gioco.
Dobbiamo anche da qui denunciare il fallimento di ogni loro tentativo trasformato sempre in tatticismi, veti e scontri che per settimane hanno paralizzato la situazione senza avanzare seriamente nemmeno una volta un ragionamento sulle vere priorità degli italiani.
Questa direzione, per decisione di tutto il gruppo dirigente fondamentale, doveva discutere la possibilità di aprire un confronto con il Movimento Cinque Stelle, secondo il mandato assegnato dal Presidente della Repubblica al Presidente della Camera solo dopo l’esaurimento dell’ipotesi d’intesa tra centrodestra e Cinque Stelle.
Un mandato chiaro e preciso anche nel suo perimetro politico.
Non si è mai trattato di decidere con un si o un no, se fare un’alleanza o votare la fiducia a un governo Di Maio.
Si trattava di lanciare con il confronto una sfida politica e culturale diretta a quel movimento che tanto ha eroso il nostro consenso anche il 4 marzo. E sfidarli proprio sul terreno del cambiamento. Fare uscire tutte le loro contraddizioni.
Nessuna rinuncia ai nostri valori e alle nostre scelte ma invece un’ipotesi certo impervia, certamente di difficile praticabilità, per incalzare quel movimento oltre i posizionamenti tattici, demagogici ed elettoralistici che hanno tenuto fino a qui.
Non quindi una resa, ma un rilancio.
Certo difficile da sostenere al punto che anch’io ho prospettato persino l’idea di una eventuale consultazione larga della nostra base, qualora si fosse arrivati a una ipotesi concreta di lavoro.
Oggi questa direzione non può più discutere di questa ipotesi di confronto perché i fatti nei giorni scorsi hanno archiviato questa possibilità. Capitolo chiuso, quindi.
A me rimane un pensiero che credo sia giusto dirvi: nella discussione accesa di questi giorni parlavamo molto di loro ma in realtà il tema vero eravamo noi. Il nostro ruolo e la nostra funzione anche quando si è in minoranza. Per non rischiare di auto-confinarsi nell’irrilevanza. E accetare una sfida. Un’ipotesa rischiosa per il Partito democratico.
Il dato ora è che il rischio di un voto anticipato è più forte di ieri con tutte le conseguenze che questo può avere innanzitutto per il Paese.
Per noi il tema non è mai stato votare Salvini o Di Maio Premier.
Ma per noi il tema non potrà mai essere nemmeno sostenere un qualsivoglia percorso con Salvini, Berlusconi e Meloni come soci di riferimento.
Tanto più impossibile chiaramente per noi un governo a trazione leghista.
Aggiungo inoltre che, visto lo spettacolo quotidiano, mi sembra quantomeno arduo immaginare che quelle leadership – che vanno per querele e tribunali – essere domani insieme padri costituenti della nuova Repubblica.
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Io credo che tanto più oggi noi dobbiamo supportare l’operato del Presidente Mattarella a cui vanno anche da qui i nostri sentimenti di stima e fiducia.
Lunedì si terranno nuove consultazioni e noi certamente dovremo avere un atteggiamento costruttivo verso la Presidenza.
Da dove partiamo? Per noi rimangono essenziali alcuni capisaldi irrinunciabili legati prima di tutto alle scelte economiche e sociali del Paese a partire dall’agenda sociale per una crescita equa contro le diseguaglianze e a un rinnovato impegno per la nuova Europa e il suo salto di qualità politico sempre più urgente e necessario. Certo, anche le riforme istituzionalirimangono un terreno di sfida e di confronto per una democrazia davvero decidente.
Sappiamo tutti di essere in una situazione delicata e profondamente incerta sia dal punto di vista istituzionale che politico.
Anche dalle regioni in cui si è appena votato – in Molise e in Friuli Venezia Giulia – arrivano segnali che dobbiamo cogliere e voglio ringraziare quanti hanno lavorato con passione e impegno in campagna elettorale pur in condizioni molto complicate.
Ci serve allora – ancora di più – una direzione salda e univoca del PD.
Certamente non solitaria ma collegiale.
Non dobbiamo consentire a nessuno di poter dire ogni giorno fuori di qui che ci sono diversi partiti nel nostro partito.
Non ci possiamo permettere attacchi interni, polemiche gratuite, provocazioni, delegittimazioni reciproche, doppi binari di direzione che finiscono sempre per fare male a tutto il PD.
Vale per tutti noi e vale a maggior ragione in questo momento.
Lo chiedo a voi, lo chiedo a tutto il gruppo dirigente nazionale e su questo penso ci debba essere il nostro immediato cambio di passo. Pena davvero l’estinzione e l’irrilevanza.
Dobbiamo esserne consapevoli verso il Paese e verso la nostra comunità che ci guarda con attenzione e si aspetta chiarezza e unità.
L’unità senza chiarezza sarebbe inutile. E il nostro compito è raggiungere questo obiettivo parlandoci con grande sincerità.
A tutti i nostri elettori, militanti e simpatizzanti dobbiamo chiedere scusa per le troppe volte che abbiamo fatto prevalere le nostre divisioni e non invece il senso dell’impegno comune.
Con questa consapevolezza chiedo alla direzione di rinnovarmi la fiducia a proseguire il mandato nella gestione di questa fase particolare e fino all’Assemblea nazionale che sarà certo un passaggio importante per la nostra prospettiva.
Non chiedo sostegni di facciata, propongo un passo consapevole.
Non ci servono false unanimità che si sciolgono al primo minuto dopo la direzione.
Mi è chiaro che una parte importante delle riflessioni che ho provato a proporvi non possono trovare una risposta compiuta solo nella discussione di una direzione.
Sento come tanti altri il bisogno di uno sforzo congressuale nei tempi giusti capace di andare in profondità e di non rimanere in superficie.
Possiamo farcela.
Ci attendono anche tra poco elezioni comunali importanti in tante città dove servirà unità, apertura, rinnovamento e impegno da parte di tutti noi.
Possiamo farcela se ricominciamo a lavorare insieme sul senso della prospettiva che vogliamo per il nostro Paese.
Su un’idea di futuro per gli italiani, molto prima dei nostri destini.
Possiamo farcela se iniziamo davvero le nostre battaglie per l’allargamento del Reddito di Inclusione contro la povertà, per l’assegno universale alle famiglie con figli, per il salario minimo legale contro il lavoro sottopagato e i contratti pirata.
Per la parità salariale di genere.
Possiamo farcela se arriviamo prima di altri a rispondere ai bisogni delle 900mila madri single del nostro paese di cui ben la metà rischia la povertà e certamente più in difficoltà delle altre madri.
Possiamo farcela anche se smettiamo di chiamarci in modo esasperato renziani, antirenziani, martiniani, orlandiani, e via dicendo (ciascuno si inventi la sua etichetta) ma se ritroviamo invece l’orgoglio di essere prima di tutto e solamente democratici.
Basta con la logica dell’amico-nemico in casa nostra!
Possiamo farcela se decidiamo una volta per tutte di curare la nostra autoreferenzialità, se apriamo porte e finestre all’impegno di altri con noi e se la smettiamo di scambiare la lealtà che si deve sempre a un impegno politico con la cieca fedeltà acritica di stagione. A Roma come nei territori.
Riprendiamo lo spirito originario del Partito Democratico.
Proviamo a dare ancora al Paese almeno noi un solido punto di riferimento.
Ce né bisogno.
Non è impossibile. Tocca solo a noi.
Possiamo farcela. Grazie.
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