Egregio direttore,
sono ormai trascorsi due mesi dalle elezioni politiche e ancora i partiti non sono riusciti a rispondere al preoccupato appello del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. I veti incrociati, le invidie, le antipatie personali e le insensate voglie di rivalsa hanno causato l’immobilità della nuova legislatura.
Gabriele Hamel, "Corriere del Trentino", 3 maggio 2018
I Cinque Stelle hanno rispedito al mittente gli inviti del centrodestra poiché la presenza di Forza Italia è giudicata ostativa alla formazione di un esecutivo; Salvini, da parte sua, non può invece permettere la fine della coalizione di centrodestra perché ciò metterebbe in crisi le amministrazioni regionali e gli enti locali governati e pregiudicherebbe ogni sua chance presente e futura di diventare presidente del Consiglio. La convergenza tra Di Maio e il Partito democratico è invero bloccata dalla presenza ingombrante e destabilizzante di Renzi.
Dissento con analisti e commentatori che scaricano le colpe dello stallo istituzionale sull’attuale legge elettorale (Rosatellum bis): non esiste infatti una legge elettorale in grado di garantire governabilità in un contesto rigidamente tripolare, reso inoltre poco flessibile dalle posizioni dei rispettivi leader (Renzi, Salvini e Di Maio) i quali inseguono un’innaturale e illogica vocazione maggioritaria della loro forza politica. Il legislatore ha scritto la legge elettorale in un quadro giurisprudenziale vincolato: il premio di maggioranza è consentito oggi solo partendo da una determinata soglia (sentenza della Consulta sul Porcellum) e il fantomatico «ballottaggio» è stato dichiarato incostituzionale (sentenza della Consulta sull’Italicum). I giudici costituzionali hanno lasciato aperto uno spiraglio solo su un possibile secondo turno riguardante tutte le forze politiche, secondo turno che però centrosinistra e centrodestra sul finire della precedente legislatura non hanno voluto. La speranza infatti era di arginare l’avanzata del M5s con un sistema prevalentemente proporzionale a turno unico in grado di favorire larghe intese tra Pd e Forza Italia. Un simile scenario però — come è noto — non si è verificato poiché Renzi ha portato il Pd al suo minimo storico e Berlusconi è stato fagocitato dall’exploit della Lega di Salvini.
Renzi, sulla poltroncina radical chic di Fabio Fazio, nel salotto più borghese della televisione, ha parlato al passato e ha complicato di non poco il lavoro del segretario democratico Martina. L’ex premier non ha dato l’impressione di aver assorbito per bene il trauma del 4 dicembre 2016 (bocciatura del referendum costituzionale); ha descritto un Paese da quel momento ingessato ed è stato, a mio avviso, irrispettoso verso l’attuale premier Paolo Gentiloni.
Vorrei sfatare un falso mito: la riforma costituzionale non avrebbe risolto il problema della governabilità, poiché la Camera dei deputati, eletta con il «Rosatellum bis», sarebbe stata identica all’attuale. Era infatti la legge elettorale (l’Italicum) e non la riforma Boschi a risolvere il problema dell’ingovernabilità del Paese, ma l’Italicum è stato appunto smantellato dalla Corte costituzionale poiché il ballottaggio è compatibile con la figura elettiva del sindaco, ma è incompatibile con quella di premier di nomina quirinalizia. Renzi ha quindi chiuso su un’ipotesi di accordo programmatico con Di Maio rilanciando una legislatura costituente sostenuta da un governo larghissimo, una specie di ritorno al passato, una sorta di rivincita personale rispetto alla sconfitta referendaria. Ora il modello sembra essere il semipresidenzialismo francese con l’elezione diretta del presidente della Repubblica e una legge elettorale sul doppio turno di collegio: un modello che consente a una minoranza di esprimere Capo dello Stato e maggioranza assoluta in parlamento. Tale ipotesi mi inorridisce.
Il motivo? Quando devo spiegare ad amici, colleghi e compagni di partito la mia contrarietà al modello francese domando loro se al Quirinale avrebbero preferito Berlusconi o, invece, come è fortunatamente accaduto, Scalfaro, Ciampi, Napolitano e Mattarella. Mi chiedo quale fine avrebbe fatto l’Italia con il modello francese in vigore negli anni passati, con Berlusconi capo dello Stato, quindi presidente del Consiglio superiore della magistratura, ossia presidente dell’organo di autogoverno della magistratura stessa, capace di dare la grazia ai condannati penalmente, di nominare cinque personalità senatrici a vita attribuendo loro l’immunità parlamentare. E Berlusconi capo di quelle forze armate che hanno indagato su di lui per tanti anni.
I padri costituenti hanno ideato l’Italia come democrazia parlamentare: in un Paese distrutto dalla guerra e dal fascismo, hanno saputo costruire un sistema costituzionale che ha consentito al Paese di essere la seconda manifattura d’Europa e uno dei G8 del mondo.
La governabilità era data dalla serietà delle forze politiche, dalla responsabilità degli accordi, da leader politici che si vedevano come avversari e non come nemici. Questa è la strada per uscire dallo stallo attuale. Non è la Costituzione a doversi adattare alla mediocrità della politica, semmai è la politica che deve riscoprirsi all’altezza della nostra Costituzione.