Michele Nardelli, 1 marzo 2010 In questi mesi una buona parte dei cittadini di Borgo Valsugana, preoccupati per le emissioni nocive dell’Acciaieria, si sono dichiarati favorevoli alla chiusura di quell’insediamento industriale.
In tutta risposta i lavoratori di questa azienda hanno continuato a rivendicare il diritto al lavoro e ad un reddito dignitoso per loro e le loro famiglie, arrivando a minacciare forme estreme di protesta.
Guerra fra poveri, si è detto. Un film già visto, che ci riporta indietro nel tempo. Quando il Trentino era terra di emigrazione e di disoccupazione, nel nostro territorio si sono insediate aziende dal forte impatto ambientale e talvolta caratterizzate da produzioni nocive. Sloi, Carbochimica, Samatec… nomi rimasti nella storia industriale di questa terra e che ancora oggi evocano un triste passato, dove il bisogno di lavorare veniva prima del diritto alla salute, alla vita, molto spesso alla dignità delle persone.
Anche la scelta di realizzare un impianto come l’acciaieria di Borgo Valsugana rientrava in questa logica di scambio, accettata a suo tempo dalla comunità locale malgrado le preoccupazioni relative all’evidente impatto ambientale che questo insediamento avrebbe portato con sé. Erano anni in cui dalla Valsugana ancora si emigrava, e dunque tanto valeva accettare insediamenti che poco avevano a che fare con il contesto locale, pur di far rimanere sul posto le persone.
Storie conosciute di ordinaria povertà. Ma oggi siamo ancora nelle condizioni di dover accettare un’industria senza qualità? Non è forse incompatibile rispetto ad altre e più qualificate vocazioni economiche? Perché economia e ambiente devono continuare ad essere aspetti inconciliabili? Il fatto poi che i risultati delle analisi si stiano dimostrando nella norma è sufficiente per accettare un insediamento come quello delle acciaierie? Domande che si aggiungono ad altre.
Si è fatto molto clamore in questi mesi attorno ai dati relativi alle analisi sulla salubrità dell’aria, dell’acqua, dei prodotti agroalimentari del territorio. E ben se ne comprende il motivo, quando in ballo è la salute delle persone e l’economia di un territorio. Ma la congruità delle analisi ci dà forse sufficienti garanzie sul piano delle conseguenze per la salute di chi ci lavora e di chi vive nella zona? Sappiamo bene che le norme vigenti riflettono livelli di sensibilità a seconda del grado di conoscenza della tossicità degli agenti inquinanti in un determinato momento, tant’è vero che i limiti imposti dalle leggi cambiano mano a mano che cresce la consapevolezza del rapporto di causa ed effetto fra l’assorbimento di determinate sostanze e le patologie rilevate.
Perché ci preoccupiamo (spesso in maniera ipocrita) dell’alterazione del clima e poi non mettiamo in campo scelte conseguenti sul piano della riduzione dell’impronta ecologica, ovvero il peso di ognuno di noi sulla terra? Non è forse in gioco la riconsiderazione del nostro modello di sviluppo? Se c’è un modo intelligente per interagire con la crisi globale è quello di puntare sulla qualità, anche quando questo significa un ripensamento sulle scelte fatte in alcuni settori che nella fase più recente hanno mostrato evidenti segni di fragilità. Qualità significa anche insediamenti che hanno forti radici nelle vocazioni del territorio e meno suscettibili a dinamiche del mercato globale e totalmente estranee al valore aggiunto territoriale. Qualità significa infine investire nella ricerca applicata al fine di costruire equilibri virtuosi fra diversi settori, con particolare attenzione alla tutela dell’ambiente.
E del lavoro. Nel corso degli anni siamo stati in grado di affrontare situazioni anche gravi di difficoltà mettendo in campo scelte politiche lungimiranti. Negli anni ’80, quelli della crisi industriale del Trentino quando nell’arco di pochi mesi andarono in fumo almeno 3.500 posti di lavoro, la comunità trentina riuscì a rovesciare una situazione davvero pesante. Grazie in primo luogo a quella grande idea che prese il nome di “Progettone”, riuscimmo a coniugare i temi ambientali con quelli del lavoro, utilizzando allo scopo le prerogative dell’autonomia.
Interventi che hanno letteralmente cambiato il volto del Trentino, tanto sul piano del ripristino ambientale che delle attività culturali. Una scelta efficace che ha coinvolto dal 1986 ogni anno almeno 800 lavoratori e creato non meno di 1.500 posti di lavoro stabili. Una scelta anche di grande valore culturale, indicando che ambiente ed economia potevano e possono essere parte integrante di uno stesso disegno di sviluppo auto sostenibile.
Proseguire per questa strada significa oggi andare verso un diverso modello di sviluppo nel quale appare del tutto estraneo un insediamento come le acciaierie della Valsugana. Non si tratta di rincorrere un facile consenso o l’emergenza. Mi sono espresso in questo senso nel passato quando con altri ponemmo la necessità che nella revisione del PUP quest’area potesse avere una diversa destinazione, l’ho fatto nella campagna elettorale indicando la necessità di un altro modello di sviluppo per la Valsugana incentrato sulle vocazioni locali riconducibili al sistema Lagorai, al termalismo e al turismo culturale (Artesella in primis), l’ho continuato a fare nei lavori della Terza Commissione Legislativa incaricata di indagare sull’inquinamento ambientale e di fronte all’allarme sociale dei mesi scorsi.
Bene ha fatto dunque il vicepresidente Pacher a proporre la costituzione di un apposito tavolo di lavoro per guardare al futuro della Valsugana. Avviare un percorso di conversione dell’area significa a mio avviso interrogarsi sugli effetti prodotti sul territorio dal precedente insediamento industriale, sull’impronta ecologica (il "peso" che ognuno di noi ha sulla Terra) che caratterizza il Trentino, sul futuro del territorio analizzandone vocazioni, risorse ed esperienze di qualità, ed infine – ovviamente – dando garanzie precise ai lavoratori delle acciaierie che non possono essere insieme i soggetti più esposti all’inquinamento e anche i più vulnerabili sul piano del diritto al lavoro.
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