Quando ho letto, su quella triste «terra di nessuno» che sono diventati i social network, un dileggio crescente nei confronti dei curriculum del candidato premier pentastellato Luigi Di Maio e del nuovo presidente della Camera Roberto Fico, ho sentito il bisogno di prendere carta e penna: la lezione del 4 marzo evidentemente nulla ha insegnato.
Gabriele Hamel, "Corriere del Trentino", 27 marzo 2018
La generazione di Di Maio e Fico è quella che più di tutte ha pagato il prezzo della crisi economica, come ha spiegato Mario Morcellini sul «Sole24Ore».
Denigrare i piccoli lavoretti (call center per Fico, steward al San Paolo per Di Maio) che hanno consentito a un’intera generazione di sbarcare il lunario e di pagarsi gli studi assomiglia a una meschineria partoribile soltanto dalle pance di quanti, nati alla fine del secondo conflitto bellico, hanno potuto vivere di debito pubblico, contributi a pioggia e previdenza sociale retributiva. Un’intera generazione che ha campato nella pia illusione che figli e nipoti sarebbero cresciuti in un’epoca più prospera.
Discutiamone, dunque. Chi di noi non ha mai comprato un biglietto delle compagnie aeree low cost? Chi di noi non ha mai acquistato sui colossi dell’e-commerce? Chi di noi non ha mai ordinato una pizza a casa in tarda serata? Chi di noi non ha beneficiato di tariffe telefoniche fortemente ribassate rispetto a quindici anni fa? Bene, tale benessere consumistico è stato costruito sulle spalle di altri, di una hostess sottopagata, di turni di lavoro massacranti nei centri di smistamento delle merci, di lavoro senza garanzie per i pizza express, di call center delocalizzati nell’Europa dell’est.
La deregulation e le liberalizzazioni selvagge hanno certamente aperto i mercati a nuove imprese, ma hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori nel mondo occidentale. Dietro a un facile clic del mouse o a un touch su uno smartphone esiste un modello di sviluppo economico insostenibile che ha causato una guerra tra poveri. Fanno riflettere le interviste rilasciate alla stampa locale e nazionale da parte di operai tesserati alla Fiom che il 4 marzo hanno votato Salvini o Di Maio: una scelta che appare inspiegabile se pensata in termini di scienza politica, ma risulta essere un’opzione ben ponderata se la si pensa in termini di richiesta di protezione sociale. I lavoratori si fanno tutelare dal sindacato più ortodosso sul luogo di lavoro lasciando a Salvini il compito della difesa in Parlamento; di fatto dalla nuova Lega salviniana che è riuscita con pochi slogan («Prima gli italiani» e «Più sicurezza») a confinare Pd e alleati nel serbatoio elettorale del ceto medio-alto, quello che vive ai Parioli a Roma e in collina a Trento. Quel ceto medio-alto che può comprarsi la sicurezza per sé e per i familiari, che sul luogo di lavoro e nella vita è garantito dal posto fisso ante Jobs Act o da pensioni più generose rispetto ai contributi versati.
Non è un caso che il voto del 4 marzo abbia affondato anche la sinistra extra-Pd. Una sinistra che con i volti di Bersani e d’Alema alla fine degli anni ’90 ha introdotto il precariato in Italia attraverso il pacchetto Treu e la conseguente espansione del lavoro atipico. Quella stessa sinistra che con le «lenzuolate» ha cercato di indebolire lobby e ordini professionali, spalancando le porte all’incertezza esistenziale della classe lavoratrice. Un mondo aperto e senza regole non funziona. Anzi, produce iniquità. Il rischio reale è che la sinistra e la socialdemocrazia abbiano intrapreso un declino inarrestabile.
In questi giorni Trump ha firmato la nuova normativa sui dazi dichiarando: «Proteggo i lavoratori americani, proteggo la sicurezza nazionale». L’attento Federico Rampini ha riferito che gli operai metallurgici di Braddock hanno accolto entusiasti le misure del presidente Usa e lo rivoteranno alle elezioni di «Midterm». Concordo con gli analisti che indicano la necessità per il centrosinistra di ripensarsi completamente e di costruire ricette nuove in chiave europea, ma ciò oggi risulta utopistico. L’Ue è in crisi perché ha perso la sua anima o forse ci siamo illusi che ne abbia mai avuta una; il peccato originale è stato costruire l’integrazione europea su basi economiche e finanziarie (modello Jean Monnet) e non su solidi pilastri politici (modello Altiero Spinelli), così abbiamo accolto in questi anni nazioni come Polonia e Ungheria che nulla hanno da spartire con i valori delle Costituzioni occidentali. La Polonia che promulga leggi di revisionismo storiografico, l’Ungheria che permette il monitoraggio dei confini a milizie paramilitari neonaziste — il gruppo Visegrad — che mette in discussione l’accoglienza di chi scappa dalla guerra e dalla fame, sono fattori che ci indicano il fallimento dell’Unione europea pensata sul solo modello economico.
Il centrosinistra oggi nel mondo occidentale ha le armi spuntate. Solo uno Stato federale europeo permetterebbe di governare efficacemente le storture della globalizzazione, ma le resistenze sono molte. Nell’attesa, i suoi più alti dirigenti italiani potrebbero evitare di denigrare la generazione di Luigi di Maio e di Roberto Fico, sarebbe già un buon inizio. In questo senso Carlo Calenda ha recentemente affermato la necessità di una nuova sinistra «che difenda il posto di lavoro e non il lavoro in sé, che offra protezione, che rafforzi e rinnovi il capitolo ammortizzatori sociali per gestire le transizioni industriali». Calenda ha dichiarato che la sinistra moderna è morta e ce ne vuole una nuova: una luce nel buio. Qualcuno, a sinistra, l’ha compreso.