TRENTO In Trentino, circa 50.000 persone provengono da aree esterne ai confini italiani. Realtà diverse, che hanno permesso la fioritura di associazioni di stampo etnico, religioso o culturale su tutto il territorio, a testimonianza del fatto che la partecipazione al sociale rimane uno dei macro-bisogni umani ed è strategica nel permettere la mediazione e l’integrazione degli immigrati.
M. Montanari, "Corriere del Trentino", 6 febbraio 2018
Il Centro informativo per l’immigrazione di Trento (Cinformi) ha, nel processo di accoglienza, una funzione complementare: rende piena la conoscenza dei servizi esistenti sul territorio provinciale, facendo luce sulle modalità di ingresso e soggiorno in Italia. È un servizio di informazione, ma anche un catalizzatore di progetti a sostegno delle associazioni multietniche presenti sul territorio, rivolte sia agli immigrati che ai trentini.
Seppur di aiuto per gestire un fenomeno sociale dell’immigrazione, un ufficio non basta. «Serve l’impegno consapevole delle comunità che vivono sul territorio — spiega l’assessore alle politiche sociali Luca Zeni anche sulla scorta dei tragici fatti di Macerata — in un’ottica di inclusione e gestione della fase successiva all’accoglienza». Partendo dal presupposto che «le barriere calano quando si socializza», Zeni sostiene che il Trentino sulla base dell’esperienza storica di convivenza fra diverse etnie possa esprimere un «governo sostenibile del fenomeno di integrazione», accontentando al tempo stesso «la crescente richiesta di attenzione alla questione della sicurezza».
Mirko Montibeller, responsabile dell’area convivenza e progetti di Associazione Trentina accoglienza stranieri (Atas), parla del rapporto che lega Cinformi alle associazioni di immigrati «un rapporto privilegiato, a doppio scambio: le associazioni ci aiutano a comprendere le aspettative e le difficoltà di chi arriva in Italia, noi le aiutiamo a formarsi e sedimentarsi sul territorio». Un aiuto burocratico, innanzitutto, poi seguito da progetti volti a valorizzare i contenuti dell’azione sociale. «Collaborando con il Centro servizi volontariato, diamo aiuto con le carte, consolidiamo le conoscenze burocratiche di chi ci chiede aiuto e informiamo chi si appresta a insediarsi in Trentino sui diritti e doveri connessi alla nostra area», continua.
Il responsabile Atas della convivenza descrive associazioni con vivo interesse a portare avanti progetti collettivi, momenti di confronto che coinvolgano anche i cittadini trentini. Un esempio sarà il Festival Interculturale, programmato per aprile. «Questo festival — dice Montibeller — si inserisce nella cornice di Mondi Insieme, un progetto di valorizzazione delle associazioni di immigrat». In cantiere anche una presentazione dei progetti realizzati dalle associazioni attive nel settore dell’integrazione e della mediazione tra culture, «alla quale saranno presenti anche gli assessori alle politiche comunali. Occorre far capire che la Provincia ha a cuore la multietnicità».
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Per i greci, la xenia (ospitalità) era considerata un rito in grado di legare indissolubilmente chi accoglieva e chi veniva ospitato. Poco importava chi fosse e da dove venisse chi bussava alla porta, le domande sorgevano per saziare una fame culturale, non per formulare giudizi.
Il fenomeno moderno delle migrazioni, forzate o spontanee, ha messo alla prova l’uomo con un nuovo tipo di ospitalità, più prolungata e, diversamente dal passato, destinata all’insediamento dell’hospes. Oggi, la società ha gli strumenti per tessere un legame di solidarietà con i nuovi arrivati. Lo fa soprattutto a livello locale, con politiche di supporto e informazione finalizzate all’integrazione, e lasciando fiorire associazioni etnico-culturali. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Uno spaccato di comunità che, lungi dalla dimensione di sacralità che contraddistingueva l’accoglienza, percepisce lo straniero immigrato come una presenza ingombrante, aizzato da certi discorsi della politica che fanno leva sulla paura generata da questo fenomeno sociale di portata imponente. La xenofobia è tornata a galla bruscamente, nella sua forma più violenta, quando sabato scorso Luca Traini, il 28enne marchigiano vicino all’ambiente dell’estrema destra e candidato nel 2017 a Corridonia con la Lega Nord, mosso da un ingiustificato risentimento razzista, ha colpito con una pistola sei stranieri che camminavano per strada. Sulla scorta della sparatoria avvenuta a Macerata, viene spontaneo interrogarsi sulle ragioni che portano questo odio a radicarsi e sulle risposte che dovrebbero arrivare dalla comunità per arginarlo.
«Il ritorno del razzismo e della xenofobia è dovuto ad un abbassamento culturale generale della popolazione. In una società di un certo livello culturale, le persone capirebbero che certi partiti strumentalizzano le loro paure in questo momento storico di grande incertezza». È il parere di Leonora Zefi, presidentessa dell’Associazione Teuta, nata nel 2008 in Trentino per rispondere alle necessità della comunità di immigrati albanesi. «La situazione che si è creata è preoccupante — continua —, ma la popolazione albanese non credo risentirà dell’odio razziale. Il processo d’integrazione è andato a buon fine». La comunità albanese è la seconda per popolosità in Trentino (segue a quella rumena): sono circa 6500 gli albanesi residenti sul territorio, e di questi il 48,6% è di sesso femminile. Un’alta percentuale che giustifica la nascita, dell’Associazione Teuta, che a detta di Zefi «è come un treno che sfreccia lungo quattro binari, in diverse direzioni: il primo punta all’integrazione, il secondo alla ricerca e alla raccolta di memorie, il terzo volge alla formazione delle donne e l’ultimo si mobilita per la promozione della pace». Uno scambio culturale messo in piedi con mostre, pubblicazioni letterarie e corsi (di lingua italiana o albanese, di assistenza famigliare, di cucito e formazione professionale). Nata dall’idea di donne albanesi (occupate nel settore dell’educazione e dell’insegnamento) migrate in Italia, si ispira a Teuta, l’unica regina donna illirica. «L’Albania è stata per anni dominata da una visione paternalista, noi ci siamo opposte fermamente alla tradizione; l’associazione è una sovversione resa possibile anche grazie all’aiuto del missionario Giuseppe Caldera». Oggi, la comunità — gestita da un direttivo quasi totalmente al femminile («Ma non facciamo discriminazioni, c’è anche un uomo») — conta 219 soci. È aperta a tutte le donne che ne condividono le finalità (sono presenti 12 etnie diverse) e a quegli uomini che «conoscono la nostra cultura e apprezzano tutte le altre».
Non altrettanto presente in Trentino la comunità cilena. Lo dimostrano le parole dell’associazione Hueñihüen, nata per dare un appiglio sociale a chi fosse in difficoltà, ma anche per diffondere la cultura e le tradizioni del Cile. Oggi si ritrova a svolgere meno attività, atte perlopiù a mantenere vivo il folklore cileno (balli, canti e cucina tradizionali). «Siamo sempre di meno — al momento una dozzina di persone — e mi vien da tirare un sospiro di sollievo: non ci sono più ondate migratorie dal Cile all’Italia, come accadde negli anni del regime Pinochet, ed è un segnale positivo: significa che ora in Cile si vive bene. Molti addirittura vi fanno ritorno», dice il responsabile dell’associazione. Una difficoltà che è il risvolto di una vicenda storica positiva.
A Trento, sono poche — appena quattro — le associazioni fondate da comunità asiatiche. L’associazione Bangladesh di Trento è una di quelle. Lavora sul piano del mutuo assistenzialismo tra connazionali, ma dal 2013, a causa di una carenza a livello direttivo, si arrabatta come può per dare aiuto a chi ha bisogno. «Aiutiamo con le carte, con la lingua, con il cibo o l’abitazione. Si trova sempre qualche connazionale che si trova in città ed è disposto a dare una mano a chi è in difficoltà. Se posso torno io stesso da Riva del Garda, dove lavoro. Ormai conosco la lingua, sono in Italia dal 1998», dice uno dei soci. Secondo lui un ruolo importante nel diffondere informazioni e facilitare l’integrazione lo gioca Cinformi. Oltre al lato più burocratico, l’associazione Bangladesh di Trento vorrebbe tornare ad occuparsi di eventi culturali, volti a vitalizzare la cultura del Sudest asiatico, rendendo le persone partecipi di momenti di convivialità e riscoperta delle origini. «Speriamo di riuscire a riformare un direttivo a breve, anche se gli orari lavorativi di molti connazionali, spesso legati alla ristorazione, lasciano poco tempo libero».
Le voci raccolte declinano l’italiano con flessioni diverse, portano le tracce di un cambiamento andato a buon fine. Rimane comunque un ostacolo alla piena integrazione: la vita lavorativa. Invasiva, lascia ai più poco tempo per dedicarsi ad altre attività di socializzazione al di fuori delle mura domestiche. Compresa la partecipazione alla vita della comunità ospitante.