Quando l’Aquila Basket ha lanciato il progetto, ormai due anni fa, i ragazzi arrivati ai primi allenamenti non avevano mai visto una palla a spicchi. Il senso di «Basketball: world in a world» era un altro: sfruttare la forza propulsiva dello sport per includere, avvicinare, irretire relazioni tra richiedenti asilo e comunità trentina, uscire dalle strutture di accoglienza per qualche ora di svago.M. Damaggio, "Corriere del Trentino", 23 gennaio 2018
Il tempo speso sotto il canestro e la dedizione verso una disciplina appena conosciuta hanno fatto il resto: oggi il progetto s’è evoluto e, con il coordinamento del Centro universitario sportivo di Trento (Cus), i tredici ragazzi sono ufficialmente una squadra. Precisamente si tratta della prima formazione di basket, in Italia, interamente composta da richiedenti asilo.
Due allenamenti in settimana nella palestra del liceo Leonardo da Vinci e partite durante il weekend (salvo anticipi): l’esordio nel campionato di promozione Silver è dello scorso autunno e, su otto match, le vittorie raggranellate sono già tre. Ma non è il risultato del tabellone, ad oggi, il principale successo. «Per noi questo è il dream-team; non la squadra dei sogni bensì il sogno di avere una squadra: un primato nazionale di cui siamo orgogliosi» ha premesso Paolo Bari, responsabile Cus per il basket.
A presentare la squadra, nella sede del Cus, ieri c’erano tutti i promotori: ateneo di Trento, Aquila Basket, operatori della cooperativa Kaleidoscopio per la residenza «Fersina», fondazione Comunità solidale. Con loro, a sostegno dell’idea, anche Provincia e Federbasket. «Perché questo — ha proseguito Bari — è un progetto condiviso».
Solitamente sono gli studenti universitari a comporre le squadre sotto l’egida del Cus, ma in questo caso s’è deciso di fare qualcosa di nuovo, rispettando la filosofia delle politiche di equità promosse dall’ateneo (e confluite in un piano triennale di azioni positive per ridurre le discriminazioni d’ogni genere). «Abbiamo così creato una squadra vera, iscritta a un campionato vero e che rispetta le stesse regole delle altre formazioni» ha sottolineato Bari. Un’iniezione di normalità per consentire, a chi attende il riconoscimento dello status sia di evadere momentaneamente da una quotidianità complessa sia di sviluppare senso di appartenenza.
In principio, come detto, a promuovere l’avvicinamento dei richiedenti asilo alla pratica del basket fu la Dolomiti Energia basket che negli ultimi mesi ha coinvolto anche il Cus. Ma la società resta protagonista dell’avventura. «E lo facciamo con grande orgoglio» ha rimarcato Luigi Longhi, presidente dell’Aquila Basket. «Sebbene non sia un momento felicissimo, per noi — ha aggiunto Longhi — l’impegno che dedichiamo al territorio trova un ulteriore sigillo». Il coach della squadra è Moussa Dia, allenatore anche delle sezioni giovanili dei bianconeri e ad affiancarlo c’è Nicola Bonelli che ha seguito sin dal principio i tredici ragazzi della squadra.
Sia chiaro: non sono mancate le difficoltà burocratiche, specie per il tesseramento. Ma con Federbasket s’è trovata la soluzione e via via si cerca di affrontare ogni complicazione.
«Resta il fatto — ha concluso Sara Ferrari, assessora provinciale alle pari opportunità — che questa esperienza sarà un modo intelligente per favorire la conoscenza reciproca: lo sport sarà la miccia per l’incontro diretto con storie e vissuti». Senza filtri, sullo stesso campo.
TRENTO La pronuncia è perfetta, ma per non farsi tradire dall’emozione ha scritto qualche pensiero su un biglietto che sfodera dai jeans. «Mi chiamo Alì, ho 22 anni e arrivo dal Mali. Sono qui da un anno e quattro mesi e non avevo mai giocato a basket in vita mia. Ma oggi ho imparato e sono contento perché è bello respirare un clima felice con i miei compagni. Grazie a chi ci ha coinvolti».
Sbarcato a Lampedusa, poi arrivato a Trento, Alì ha già un ruolo definito. «Difensore», dice con orgoglio mentre invita tutti ad assistere alla partita di giovedì, alle 21.30 a Gardolo.
Ad ascoltarlo, in prima fila nella sede del Cus, ci sono altri componenti della squadra. Quasi tutti sono accolti a Trento, nella residenza Fersina. Hanno un’età compresa tra i 19 e 22 anni, provengono da Paesi diversi e a unirli sono due cose: l’attesa dello status e l’amore, appena nato, per uno sport fino a qualche mese fa del tutto estraneo. Il basket, s’intende.
«In verità io da piccolo sognavo di diventare un campione dell’Nba; vedevo le partite in tv, soprattutto del Chicago — racconta Moussa Konate, 20 anni, originario della Guinea Equatoriale —. Nel mio Paese però non ho mai giocato, ho imparato tutto qui». Mesi di allenamento e oggi il campionato. Fra tutti spicca per la statura. «Siamo tutti alti in famiglia — precisa con un ampio sorriso —. Sono un attaccante, faccio anche le schiacciate». Dopo otto mesi di viaggio, «a piedi, in macchina e di nuovo a piedi», Moussa ha varcato i confini della Libia, per poi sfidare il mare. «Sono arrivato a Crotone il 28 giugno 2017, un anno e sei mesi fa» dice ancora. Undici ore di viaggio, alla mercé delle onde. Qui il volto s’increspa: «È stato un viaggio difficile, la barca era piccola, di plastica».
Anche Balde Mohamed, 19 anni, arriva dalla Guinea Equatoriale. «Sono arrivato a giugno dello scorso anno, in Sicilia», spiega. In Africa restano due fratelli. Ma le notizie che arrivano sono poche. «Di mio fratello maggiore non so più niente».
Vent’anni, da sei mesi a Trento. Bobo D’iallo Mamadou è l’unico che in Guinea s’era già avvicinato al basket. «Giocavo con la squadra della mia scuola, avevamo anche una specie di campionato con altre scuole, un torneo». Un’esperienza che l’ha subito portato a interessarsi agli allenamenti. «Ho visto che erano bravi, ho voluto provare». Un esercizio non solo fisico, persino utile per migliorare l’italiano (già molto buono dopo pochi mesi). «Tutti dobbiamo imparare la lingua e studiare — conclude —. Ho terminato gli studi a tredici anni, ora voglio prendere il diploma di terza media».
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