Jobs act non è mai stata una fantasiosa performance di Renzi ma, verosimilmente, uno degli esiti della lunga stagione di analisi delle problematiche del lavoro in tempo di crisi sulle quali si impegnarono, tempo addietro, Ezio Tarantelli, Massimo d'Antona, Marco Biagi (tutti assassinati dalle Brigate Rosse).
Paolo Mirandola, 25 novembre 2017
Su questi temi il governo si è mosso per tempo affidando il compito ad un valoroso gruppo di giovani lavoristi, economisti e sindacalisti (penso per tutti a Nannicini, Damiano e Taddei) che hanno contribuito alla creazione dell'istituto tanto contestato. C'è stata, dopo il jobs act, un'ondata di licenziamenti per motivi economici, senza reintegro giudiziario e con un'indennizzo economicamente compatibile per le imprese dopo le nuove norme sul mercato del lavoro?
C'è stato un generalizzato ridimensionamento della base occupazionale sulla pelle dei diritti sociali e sindacali?
No, rispondeva Giuliano Ferrara sul Il Foglio di qualche giorno fa.
Bersani che condiziona l'eventuale apertura di un dialogo con il Pd alla rottamazione di quella robaccia (Jobs Act) impone una interpretazione psicanalitica più che politica.
Leggo anche che, da parte di una certa sinistra a trazione sindacale, si enfatizza la riproposizione del fantasma dell'art. 18 contenuto nello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Anche quel prezioso documento fu pensato, negli anni '50/'60, da una ristretta schiera di lavoristi (cosiddetta scuola di Bari) allora coordinati da un giovanissimo Gino Giugni ed attorno a cui ruotavano Tiziano Treu, Umberto Romagnoli ed il più anziano accademico Federico Mancini.
Tutta la squadra era spronata dall'allora ministro del lavoro socialista Brodolini che, prima di spegnersi, riuscì a condurre in porto quella riforma (30 luglio 1970) che, quantomeno inizialmente, fu contrastata dalle forze sindacali, in particolare da quei soggetti che si erano formati nelle scuole di Mosca.
Ricordo ancora le perplessità di Piero Boni, segretario generale aggiunto della Cgil, in un lontano convegno del 1973.
Erano gli anni in cui, chi arrivava alla periferia di Torino, al cambio di turno, incrociava decine di migliaia di lavoratori che uscivano dal Lingotto, da Mirafiori, dalla Indesit e, proseguendo nel territorio del Pinerolese, ne incontrava altre migliaia e così, salendo le valli del Chisone, con la Riv di Villar Perosa (cuscinetti a sfera) altre migliaia.
In quegli anni Rovereto, eminente polo industriale del Trentino, contava 11.000 operai.
Oggi quell'umanità non esiste più, ovunque è il deserto e le innovazioni legislative (di allora) in molti punti, assomigliano a preziosi pezzi d'antiquariato.
Bersani e compagni che rinnegano oggi le recenti riforme sul lavoro (che votarono senza troppe obiezioni), rappresentano ormai una elite politica culturalmente debole, incapace di capire Madame Geschift di cui scrisse a suo tempo Rosa Luxemburg.