Mattia Civico, 14 febbraio 2010 Emanuel è un bambino di 7 anni. È nato a Castel Volturno, da madre ghanesiana. Il papà è morto. Va a scuola e pomeriggio frequenta l’oratorio dei padri Comboniani.
Occhi grandi. Parla l’italiano con un simpatico accento napoletano. Quando ci incontriamo al campetto da calcio mi bombarda di domande: chi sono, da dove vengo, quanti anni ho, per quale squadra tifo. Lo conquisto definitivamente quando scopre che siamo entrambi tifosi della stessa Juventus.
“Dove abiti?”, gli chiedo. All’American Palace. Lo accompagno. Entriamo in un edificio inquietante, lurido, buio, con un fetore nauseabondo. La sua famiglia abita al primo piano. Alle porte accanto, mi dicono, spaccio e prostituzione. L’andirivieni e il traffico di gente che c’è nel giro scale conferma un certo movimento. La mamma gestisce un market abusivo. L’appartamento è una discarica di merce varia. Stanno traslocando. Prima di salutare ripetiamo con Emanuel la casellina del 4 e poi mi batte un cinque con la mano.
Scendiamo nuovamente in strada e torniamo verso casa. Questa sera abbiamo invitato a cena due ragazzi immigrati, entrambi del Ghana. È incredibile la forza e il buonumore che mantengono, stante la vita che fanno. È da due mesi che si recano al “Califfo ground”, la rotatoria dove i “caporali” selezionano la manodopera per la giornata, senza che nessuno offra loro lavoro. Vengono entrambi da Rosarno. Ci raccontano.
Raccoglievano mandarini. I braccianti provenienti dall’est Europa potevano raccogliere i frutti dall’albero, quelli raggiungibili stando in piedi. Gli africani avevano il compito di salire sulle scale e prendere gli agrumi in alto. Per tutti il prezzo è lo stesso: 1 euro a cassetta. La raccolta delle arance invece viene pagata 50 centesimi a cassetta. La frutta poi evidentemente finisce sulle nostre tavole.
Ci raccontano della paura che avevano a passare per il paese, specie a fine mese, quando in tasca avevano qualche euro. Per andare a lavorare era preferibile passare dai boschi, invece che dalle strade principali, per il rischio di essere scippati. La discussione si fa profonda ed interessante. Con semplicità mi confermano il paradosso in cui stanno vivendo: “siamo qui per lavorare –mi dicono- ci svegliamo alle 4 di mattina, torniamo la sera alle 10. Abbiamo bisogno di un documento per non subire perquisizioni ogni giorno, una carta che spieghi alle forze dell’ordine chi siamo. Ci sono italiani qui che sparano, girano armati, che ci picchiano e ci derubano, che non lavorano e che non vengono fermati mai. Voi, di chi dovete avete paura? Di noi o di loro?”
Domanda imbarazzante a Castel Volturno, dove i paradossi sono evidenti, dove parlare di immigrazione e clandestinità ha tutto un altro sapore. Dove l’ingiustizia e la violenza è quotidiana, e dove è evidente che gli immigrati, i clandestini, sono solo l’anello più debole di un meccanismo perverso che stritola persone, deforma storie, compromette vite. Di chi avere paura? Chi proteggere, accogliere e mettere al riparo? Chi abbracciare chiedendo perdono? Camorra e immigrazione, caporalato e sfruttamento, abusivismo edilizio ed inquinamento. Sotto lo stesso cielo.
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