Michele Nardelli, 14 febbraio 2010
Il problema della politica è quello di saper capitalizzare i saperi e le esperienze e, al tempo stesso, di innovare il pensiero.
Non è semplicemente quello di avere baldi giovani pronti a sostituire chi ha già dato, ma di trasmettere conoscenza, spirito critico, senso di responsabilità.
Insomma, c’è rinnovamento solo se siamo capaci di far tesoro del passato. Anche perché se questa terra è stata ed è diversa, lo si deve al fatto di essere stata, nel tempo, luogo di avanzata sperimentazione sociale, culturale e politica. Lo è stata per l’autonomia, un terreno nel quale ci si è dovuti immaginare scenari inediti per trasformare una situazione di conflitto acuto in opportunità, a partire dalla genialità di quella mezza paginetta che va sotto il nome di “Accordo Degasperi Gruber” e da quell’“ancoraggio internazionale” che l’ha resa una partita dinamica. Potremmo dire lo stesso per la sua organizzazione sociale, grazie ad una storia dove il concetto di proprietà collettiva è diventato la cifra di un modello economico capace di sfuggire alla contrapposizione “stato-mercato”. Penso a quel che hanno significato gli anni ’60 nella capacità di interpretare le grandi spinte al rinnovamento culturale e politico o, negli anni successivi, nello sperimentare forme del tutto originali di organizzazione politica. Allo stesso modo, non credo sia affatto casuale che questa nostra terra abbia saputo non omologarsi alle dinamiche dello spaesamento e della paura.
Una diversità che rappresenta un patrimonio straordinario, ma che richiede di essere un corpo vivo capace di interrogarsi sui nuovi scenari, pena l’isterilirsi della retorica e l’omologazione nello spirito del tempo. Che oggi non aiuta. Mi guardo attorno e dico molto serenamente che non c’è luogo in Trentino che non si debba interrogare sulla propria in/adeguatezza. La ricchezza dei palazzi stride spesso con la miseria delle idee.
Oltretutto, non ce lo possiamo nemmeno permettere. La crisi generale e quella di alcune delle più importanti filiere produttive di questa terra sono lì a dirci che “qualità e innovazione”, parole ormai abusate, non s’inventano da un giorno all’altro e che per questo si deve investire sul sapere, sull’apertura al mondo nella consapevolezza dell’interdipendenza, sull’intelligenza critica piuttosto che sulla “fedeltà”.
E poi sul senso di comunità e di responsabilità. Si è detto che un tempo c’erano i luoghi della formazione civica, sociale e politica, quei corpi intermedi (partiti, sindacati, grandi associazioni di massa…) che selezionavano le nuove classi dirigenti. Ma c’era dell’altro, un contesto culturale nel quale – per dirla con Fabrizio De Andrè – “si era lo stesso coinvolti”. Non servivano grandi mezzi. Ho un vivo ricordo di quei pochi metri quadrati a piano terra di Palazzo Giulia a Trento, dove c’era la sede dei lavoratori metalmeccanici e dove i pensieri si trasformavano in tempo reale in azione sociale e scuola di vita. Una vecchia macchina da scrivere e un ciclostile manuale, un piccolo impianto di amplificazione (le trombe, come si diceva allora) e una voce, quella di Giuseppe Mattei, giovani operai che avevano forse il diploma di avviamento professionale ma che conoscevano a menadito il ciclo produttivo della loro azienda multinazionale, luoghi in cui si formava una classe dirigente. Che abisso rispetto al “non nel mio giardino”…
Fa bene dunque Alberto Faustini nell’editoriale di domenica scorsa a sferzare la nostra comunità affinché s’interroghi sui processi da mettere in campo per favorire il ricambio generazionale. Ma non credo sia solo una questione anagrafica. Credo che questo processo debba corrispondere alla necessità di mettere mano agli strumenti interpretativi, alla capacità di mettere a fuoco quel che avviene, indagando sul significato delle parole che usiamo e che hanno smesso da tempo di comunicare alla mente e al cuore delle persone, ricostruendo un nuovo abbecedario.
E’ questa la responsabilità che deve avere la politica, anziché rincorrere gli avvenimenti e la ricerca del consenso ad ogni costo. Ed è anche la responsabilità che avverto in prima persona, come parte di una generazione che ha sequestrato il proprio tempo senza avere il coraggio di darsi la necessaria distanza per elaborare e trasmettere quel che, nel bene e nel male, gli anni ci hanno insegnato.