Claudia Merighi da una decina di anni ha lasciato, ancora giovanissima, la vita politica roveretana. Ultimo incarico, consigliere in comunità di valle. Oggi è da poco presidente del comitato dei Laici trentini. A Rovereto era arrivata giovanissima nel 1998: figlia di roveretani, ma cresciuta fino quasi alla maggiore età a Milano. Erano anni diversi: “il primo pomeriggio a Rovereto - racconta - ero andata nella sede di via Tartarotti per fare la tessera della sinistra giovanile”.L. Marsilli, "Trentino", 3 agosto 2017
Adesso la sinistra giovanile non c’è più, la sede di via Tartarotti nemmeno. La sinistra? Si potrebbe discutere. Sociologa.
Cosa è stata quella Rovereto per lei? Dopo 20 anni e con la mia vita partitica finita posso dire che è stata una scuola politica e di vita civile, di civismo, di passione per la cosa pubblica.Vedevamo una città in cambiamento e lavoravamo per indirizzare quella evoluzione. Sono stati anni favolosi.
Arrivando da Milano e da ragazzina. Per chi arriva da fuori forse è più facile capirlo perché ha una prima impressione che gli rimane dentro: Rovereto è una città bella e che ha enormi potenzialità. Io oggi lavoro e vivo a Trento e so che per questo qualcuno mi toglierà il saluto, ma Rovereto è unica almeno in Trentino. Altro livello, altre prospettive. Lo era anche allora.
In che senso? Culturale, ma nel significato più ampio del termine. A Rovereto c’è un tessuto culturale che è medio alto e si riverbera in tutto. Anche gli operai di Rovereto erano diversi. Altro senso del lavoro, dei diritti. E vale per tutto: per l’imprenditoria, per il sociale, per l’associazionismo. A Rovereto respiri più alto. Possiamo dirlo? È così.
In Trentino in realtà passiamo per essere la città della rissa continua. Semplicemente per l’atavico rifiuto dell’omologazione? No. La litigiosità roveretana è il rovescio della medaglia. Proprio perché è una città di confronto a livello alto, quando il confronto non riesci a gestirlo ed incanalarlo in binari costruttivi, diventa scontro e scontro pesante. In qualsiasi campo. È il vero limite che secondo me ha avuto Rovereto in questi decenni. È una città che non è riuscita a pacificare se stessa. Capiamoci: per pacificare non intendo rinunciare al confronto, ma riuscire a gestire la dialettica, indirizzarla in modo costruttivo.
Cosa che a Rovereto non si riesce a fare? Cosa che non si è fatta. Ma che bisogna riuscire a fare. Perché Rovereto, unica, ha le potenzialità per essere l’elemento innovatore del Trentino. Ma però fino ad oggi non è mai riuscita a compiere intero un percorso: arriva a un certo punto, e poi si arena sempre sullo stesso basso fondale: quello dei personalismi, della mancanza di fiducia, delle vendette incrociate. Buttandola in ridere: si arriva sempre al punto in cui tutti hanno un cugino a cui un tuo cugino ha fregato la morosa. E li ci si ferma. Una dimensione “paesana” che non si riesce a superare. E alla fine ha la meglio su quella capacità di pensare alto di cui parlavamo.
Per questo Rovereto è rimasta al palo? Non è rimasta al palo: anche oggi ci sono alcuni segni evidenti che mantiene tutta la sua capacità di innovare e inventare. Ma paga questa sua sfiducia autodistruttiva per esempio nel non avere quelle strutture che le servirebbero. Se ogni 5 anni si deve abbattere un sindaco per il solo piacere di dargli del cretino, è difficile che progetti di un qualche respiro arrivino a compimento.
Diceva che dei segni della forza innovativa insita nella storia cittadina si vedono anche oggi. Esempio? Per esempio con Progetto Manifattura e la Meccatronica, si sta facendo a Rovereto una delle esperienze più positive ed interessanti di rilancio di un luogo storico del lavoro e del lavoro stesso. Così come col Mart si è compiuto un passo importante. Anche se da Rovereto mi aspetterei ancora qualcosa di più.
Cioè? Beh, io penso che alla fine sia il Mart che Manifattura siano fisicamente chiusi su se stessi. Un museo di arte contemporanea non può restare chiuso nel suo, pure splendido, contenitore. Deve masticare la città e farsi masticare dalla città. Lo stesso le “teste” delle startup di Manifattura e Meccatronica. Devono essere portare a incontrare la città, viverla, farne il loro luogo di sperimentazione. E secondo me è l’amministrazione che deve creare le opportunità perché accada. Anche perché Rovereto è libera: può decidere il proprio futuro e farne quello che vuole. Non è capoluogo di provincia, con i legami che questo comporta. Risponde solo a se stessa: è padrona di provare e anche sbagliare.
E cosa dovrebbe provare? Per me? Il mio sogno è sempre stato una Rovereto che si dà una dimensione metropolitana. Diventando polo di riferimento di quell’area di 80 mila persone, la Vallagarina, che già gravita sulla città ma senza condividerne le decisioni e le sorti. Vale verso l’esterno, con gli altri centri della valle, e verso l’interno, con le proprie associazioni, le proprie categorie, le proprie eccellenze e risorse: Rovereto ha un tessuto ricchissimo su cui lavorare, ma deve assumersi l’onere ed anche i rischi di metterlo in rete. Darsi obiettivi chiari, anche coraggiosi, e orientare su quelli gli sforzi di tutti. Scontentando qualche cugino, ovviamente, ma sarebbe ora di liberarsi anche di questa paura. Ci sono ottimi esempi in quelle che si chiamavano “aree vaste”: basterebbe anche copiare bene.
Insomma, coraggio, pacificazione, fiducia. Siamo su temi “alti” e pensando al quotidiano... Realistico? Avevo premesso che questa è una città che ha potenzialità enormi. Ma anche che trova proprio nel rovescio della medaglia di queste potenzialità il proprio limite. Forse potrebbe aiutare qualcuno che venga da fuori. Che non abbia cugini che tre generazioni fa hanno fatto uno sgarro ad altri cugini... Ma forse serve solo una nuova consapevolezza. Prendere coscienza che si può fare tutto. Le persone che hanno idee ci sono: aiutarle a tirar fuori tutto il loro potenziale.
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