I l 20 giugno si è celebrata la giornata mondiale del rifugiato. Non se ne è parlato molto qui, meglio lasciarlo passare inosservato per non suscitare nuova preoccupazione e fastidio in chi associa la parola rifugiato agli sbarchi sulle nostre coste, un problema di cui non si sa più come farsi carico.
Elisabetta Bozzarelli, 7 luglio 2017
In rappresentanza di Acav e con esponenti dell'associazione 46° parallelo, ho partecipato alla celebrazione di questo giorno nel West-Nile Ugandese, una regione che nel giro di un anno è diventata la rappresentazione emblematica del dramma e del problema dei rifugiati. Vivevano qui meno di tre milioni di abitanti, a un livello di vita tra i più bassi in Uganda, sempre al limite della sopravvivenza. Quando nell'estate del 2016 è riesplosa la guerra civile in Sud Sudan, con il suo carico di violenza insensata e atroce, decine di migliaia di donne, uomini, bambini hanno preso le loro poche cose, qualche pentola, un materasso, qualche gallina e si sono messi in viaggio verso l'Uganda. Ne sono arrivati più di un milione, e non è finita. La vita è salva, l'orrore sembra lontano, per tutto il resto? aspettano e forse qualcosa succederà.
L'Unhcr, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, li raccoglie al confine e li accompagna con degli autobus al centro di prima accoglienza. Parlo con Viola, funzionaria dell'Onu, che ci spiega che tutti vengono registrati, sottoposti esami sanitari, in particolare i bimbi e le donne in gravidanza, che sono tante. Molte sono vittime di stupri, rassegnate e tristi: non serve denunciare, non serve ribellarsi, non c'è difesa per loro.
Una donna continua a chiedere di venire registrata per la seconda volta, e ci dice che la razione di cibo che riceve è la metà di ciò che sarebbe necessario per una famiglia come la sua e così vorrebbe ricevere una doppia razione. Di fronte a un milione di rifugiati, le agenzie internazionali faticano a rispondere all'emergenza con assistenza, cibo e acqua per tutti. Ma le regole sono rigide e la donna non trova risposta.
Rhino Camp, 450 chilometri quadrati di territorio prima praticamente disabitato, è uno dei sei campi profughi allestiti a qualche decina di chilometri dal Sud Sudan. Accoglie 86.500 persone, divise in sei villaggi. Si amplierà ancora.
Sono stati distribuiti da Acav i primi 100 kit agricoli ad altrettante famiglie (nella foto) . Ne saranno distribuiti 1.300 grazie ad un progetto della Provincia Autonoma di Trento. Sementi, talee, una zappa e una vanga è ciò che serve per ricominciare. Acav ha formato i contadini e le contadine, dando loro alcune semplici nozioni perché possano coltivare un pezzo di terra e piano piano ricominciare una vita che possa sembrare normale.
A Rhino Camp in tre villaggi ogni persona ha a disposizione 12 litri di acqua al giorno, in altri due 7 litri al giorno, nell'ultimo si arriva al massimo a 3 litri al giorno. Per bere, cucinare, lavarsi e lavare: provate a immaginare che cosa significa. Ma oggi è un buon giorno, nonostante tutto. Possiamo vedere in funzione il pozzo perforato da Acav, che ha una portata superiore a 50.000 litri/ora. Siamo pronti per meccanizzarlo e così si potrà distribuire acqua ad almeno 50.000 persone. Accanto alle grandi istituzioni internazionali, la nostra piccola Ong, abituata a lavorare con gli amministratori e con personale locale, ha saputo mettere in campo le sue competenze per interventi mirati e di grande efficacia. Acqua e agricoltura, per migliorare la vita quotidiana e dare un senso a questo doloroso esilio.
Da Rhino Camp, il «nostro» campo, andiamo a Imvepi. Qui proviamo a parlare con diversi rifugiati, per capire cosa hanno attraversato, cosa vogliono fare. Hanno camminato per molti giorni, hanno perso o abbandonato ciò che portavano con sé. L'esercito e i ribelli, le due forze che si fronteggiano, non risparmiano niente e nessuno. Si chiedono: ma il Sud Sudan indipendente, nato pochi anni fa tra mille speranze, non doveva proteggerci? Vogliono tornare a casa, vogliono tornare quando ci sarà la pace. Ma la pace è lontana. Il cammino è molto.
La Cooperazione italiana è presente con Domenico Fornara ambasciatore italiano in Uganda, nei giorni del Summit internazionale ugandese sul rifugiato, ha accompagnato un convoglio di aiuti al campo profughi, dove insieme abbiamo iniziato la distribuzione. Ci sono medicinali, viveri, utensili da cucina da distribuire alle persone più bisognose.
Sempre nella regione, c'è Bidi Bidi, il più grande campo profughi al mondo, 285.000 persone presenti, lungo 50 chilometri. I campi qui sono delle distese silenziose di capanne o piccole tende fatte con i teli di plastica delle Nazioni Unite. Al centro di distribuzione delle derrate alimentari, curato dal World Food program, una volta al mese una persona per nucleo familiare riceve sorgo, olio di palma, farina di mais integrata con soia e fagioli. Sembra poco? Ma chi riceve queste razioni alimentari è contento: si mangia! lo spettro della fame, che ben conoscono, per un po' resta lontano.
Acav, che ha come missione l'aiuto agli ultimi, in questi campi di rifugiati è presente e operativa. Porta l'aiuto del Trentino e dei trentini. E la nostra esperienza può far riflettere non solo sul dramma che si consuma ogni giorno in questa realtà lontana ma anche su quello di cui parliamo ogni giorno.
Ogni persona che arriva sulle nostre coste ha una sua storia e le situazioni da cui provengono sono molto diverse. Tuttavia nel dibattito pubblico i rifugiati in blocco diventano un pretesto per la lotta politica, una merce di scambio elettorale, un problema per la sicurezza dei cittadini. Si finisce per perdere la capacità di distinguere, di scegliere, di programmare gli aiuti. E si arriva dove siamo in questi giorni, alla constatazione che così non è possibile continuare.
Ma lo sappiamo che tutte le realtà del mondo oggi sono interconnesse e occorre intervenire all'origine dei problemi. Nel cuore dell'Africa ho potuto vedere la realtà di chi fugge dalla guerra e lo sforzo di chi li accoglie nel tempo dell'emergenza. In tante realtà come questa si gioca il futuro dell'Africa e anche il nostro. Fermare le guerre, anziché alimentarle con i commerci di armi, creare sviluppo e sicurezza, investire sulle nuove generazioni con scuola e formazione dovrebbe essere uno sforzo della cooperazione internazionale di ogni paese e dell'Europa. Bisogna anche salvare ogni vita, che nessuno muoia sul mare della speranza, ma consapevoli che l'accoglienza indiscriminata e umanitaria non risolve nessuno dei problemi dell'Africa e nemmeno i nostri.