Un partito con un grande potenziale inespresso, spinto da non si sa quali ragioni a commettere errori banali. Il Partito democratico ha un anno di tempo per fissare il punto e rilanciare se stesso, a Roma e in Trentino. Ce la può fare, ne è convinta la presidente Donata Borgonovo Re, che riconosce nel suo partito la capacità «di fare molte cose utili per questo territorio».
A. Rossi Tonon, "Corriere del Trentino", 30 giugno
A patto però di mantenere ferme le gerarchie e le loro «virtuosità»: «Nell’organizzazione locale gli echi del partito nazionale entrano, certo, ma restano echi». Vietato dunque farsi risucchiare dalle dinamiche romane e, in particolare, da quelle che genera Matteo Renzi, amato ma forse più odiato dagli iscritti, molti dei quali si sentono traditi da un segretario che non è riuscito a diventare ciò che diceva di essere.
Presidente, prima di guardare al futuro pensiamo al recente passato: le amministrative hanno visto il trionfo del centrodestra e un ulteriore battuta d’arresto del renzismo. Qual è la lezione da trarre?
«Renzi sembra incarnare per alcuni il meglio del Pd ma per molti altri il peggio, e pare che laddove il partito si presenta con una dimensione locale gli elettori vogliano mandare un messaggio a quella nazionale. Non ci si rende conto che i processi sono differenti, che la dimensione locale è diversa e in essa certo gli echi del dibattito nazionale entrano, ma restano echi. C’è una virtuosità nel circuito tra cittadini e amministratori locali che tiene le distanze dalla dimensione nazionale, in cui il partito si presenta come organizzazione pesante e monolitica. E se questo viene meno è una perdita».
È quindi un rischio collegare fortemente la dimensione locale del partito a quella nazionale?
«Se un partito territoriale confederato con quello nazionale, cosa consentita dallo Statuto, ci permettesse di tenere dentro anche le persone che nel Pd hanno lavorato per molto tempo e che poi hanno deciso di andare altrove, allora avrebbe senso. Perché il Pd trentino sarebbe un laboratorio che include le anime della sinistra e le mette a frutto. Il problema è che fra la teoria e la pratica la differenza la fanno le persone: chi è disposto al dialogo e a riconoscerci? Ci sono ferite che non si rimarginano e distanze che non si ricuciono».
Si torna dunque sempre lì, a quello che rappresenta uno dei problemi fondamentali del Pd: l’iperpersonalismo. Non crede?
«Le ragioni di tutto ciò sono un mistero. Quando il Pd affronta i grandi temi è un fiorire di idee, persone che discutono e proposte. Lì si rivela la capacità di chi dà vita al partito, una capacità di pensiero. Poi però cadiamo sulla dimensione organizzativa e dei rapporti interpersonali. Forse siamo poco professionali nel nostro essere all’interno di una comunità organizzativa. Se scatta il meccanismo personale perché coltivi il tuo spazio allora salta il patto, che è un patto di solidarietà belligerante. Perché devi scontrarti per tirare fuori la decisione comune. Salta perché non c’è un senso di comunità dietro. Non siamo un gruppo di amici e non dobbiamo credere di esserlo, ma se c’è un progetto comune il lavoro deve essere solidale anche se non siamo amici. Abbiamo paura di litigare, e invece dobbiamo farlo. Dobbiamo scontrarci anche duramente se serve, ma poi uscire con una decisione che sia una. Quella del partito».
Queste sfide il Pd dovrà affrontarle guardando ad alcuni appuntamenti elettorali, il primo dei quali è nel 2018 con le provinciali. Come ci si arriva?
«Abbiamo fissato due percorsi, uno dei quali è quello delle commissioni di lavoro che attraverso l’assemblea e alla prima conferenza programmatica di settembre condurrà a quella della prossima primavera in cui individueremo i nostri temi. Ma poi dovranno tornare al lavoro in maniera diversa, non più a canne d’organo ma trasversalmente sulla base dei temi. E questa, io credo, potrebbe essere l’idea per riorganizzare la giunta e anche tutta la struttura provinciale».
I nomi che circolano non sono ancora molti. Per il Pd ce n’è però uno in particolare, quello di Giorgio Tonini. Lei cosa pensa?
«Lo stimo come persona e ho imparato a conoscerlo con la riforma costituzionale. È preparato, sa mediare e dialogare, doti tanto apprezzate in questo ambiente. Se dovessimo cominciare a mettere dei nomi su dei post-it e attaccarli a una lavagna bianca, io il suo lo metterei».
In vista del 2018 ci sarà però anche da rivedere la coalizione. Almeno per fare il punto su ciò che eventualmente ancora vi tiene uniti. Il Pd potrà rivendicare un ruolo da leader?
«In questa legislatura non lo ha avuto. Ha avuto momenti di importanti risultati, ma non la leadership. Va ricostruita, con un’autorevolezza che il partito deve ridisegnare. Bisognerà ragionare su cosa si è fatto e cosa non si è fatto, su cosa è accaduto, su comportamenti che non si possono dimenticare. Senza rivangare niente, ma guardando in faccia le cose e correggendo gli errori. Io penso che il Pd del Trentino possa fare molte cose utili per questo territorio. Come coalizione credo che abbiamo smarrito un po’ di occasioni per dirci come la pensiamo. Serve rifare il punto, riprendere in mano le nostre ragioni di stare insieme».
E lei quale ruolo avrà? Perché nel 2018 si voterà anche per le politiche e il suo è uno dei nomi che è circolato per le candidature romane. Sarebbe interessata?
«C’è stato un momento in cui ero talmente arrabbiata e delusa che avrei voluto lasciare, perché arrivare alla mia età e vedersi mettere l’etichetta di “incapace” è molto sgradevole. Poi mi sono detta che nella vita il problema non è cadere ma non rialzarsi. I cittadini mi hanno eletto per questa legislatura, dentro al Pd. Sulla mia presenza ai prossimi appuntamenti elettorali davvero non ho idea. Certo è che non mi butterò più come il don Chisciotte nel 2013. Rappresentare alla Camera i cittadini italiani e trentini è un onore, quindi non posso escludere niente. Ma davvero io adesso dico solo che vorrei il Pd mi dicesse se io sono utile, dove e come».
Dopo le provinciali ci saranno le comunali per Trento. E qui i nomi che circolano, al momento, sono almeno quattro: Andrea Robol, Italo Gilmozzi, Mariachiara Franzoia e Lucia Maestri. Lei cosa pensa?
«Sono tutti bellissimi i nomi, ma il prossimo sindaco di Trento dovrà essere una donna. Usciamo da questo mondo maschile. Abbiamo bisogno anche di questa novità. Trento è giunta alla soglia della candidatura femminile per la guida della città, abbiamo bisogno di cambiare lo sguardo».
E infine i vaccini. È un tema che alimenta il dibattito nazionale e provinciale, dopo le sanzioni tolte dall’attuale governatore Rossi nel 2012. Che idea si è fatta?
«Dico che non siamo solo noi a interrogarci. La Francia sta discutendo per passare da 3 a 11 vaccini obbligatori dopo aver fatto lavorare per un anno una commissione di esperti e due comitati, uno di cittadini e uno di professionisti. Sono giunti alla conclusione che per un tempo limitato l’azione più efficace per stabilire la dimensione di immunità diffusa all’interno della comunità è rendere obbligatori 11 vaccini con una differenza rispetto a noi. Loro inseriscono una clausola di esenzione: dopo un percorso informativo garantito dalle autorità sanitarie, i genitori possono sottoscriverla assumendosi la piena responsabilità civile su eventuali conseguenze negative che dovessero derivare da mancata vaccinazione. Quindi nessuna sanzione ma responsabilità civile. Non sono in grado di comprendere tutto, perché tecnicamente non sono medico. Devo fidarmi di qualcuno e fino a prova contraria queste sono le istituzioni. Chiedo allora percorsi informativi che mettano a confronto percorsi e temi».