“Costruire, nel Pd, attorno al Pd e anche oltre il Pd l’unità dei riformisti”. Intervista a Giorgio Tonini

La politica italiana vive giorni di grande fibrillazione .Sullo sfondo c’è ancora la vicenda Consip. Intanto prosegue a sinistra il dibattito sulle nuove possibili alleanze di governo. Di questo parliamo con il Senatore Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato e Presidente della Commissione Bilancio a Palazzo Madama.
http://confini.blog.rainews.it, 20 giugno 2017

 

Senatore Tonini, in questi ultimi 15 giorni la politica italiana ha vissuto un “immenso gioco dell’oca”. Mi riferisco certamente alla vicenda della legge elettorale e, legata a questa, alla “scoperta” (che assomiglia alla scoperta dell’acqua calda) da parte di Renzi delle coalizioni. Mi scuso per la durezza Senatore: ma è credibile un politico che si comporta così?

La politica italiana è entrata in una nuova fase di grave incertezza strategica il 4 dicembre scorso, quando l’esito negativo del referendum ha segnato il fallimento dell’ambizioso disegno riformatore che doveva dare all’Italia una solida democrazia maggioritaria. Il tanto vituperato «combinato disposto» di riforma del bicameralismo e legge elettorale maggioritaria a doppio turno avrebbe consentito di andare al voto, al termine di questa legislatura, poco importa se qualche mese prima o meno, consegnando nelle mani dei cittadini elettori il potere di decidere a quale partito assegnare la maggioranza dei seggi in Parlamento e la possibilità di governare in modo stabile per l’intera legislatura. Svanita, per l’ennesima volta, questa prospettiva, a causa certamente degli errori di Renzi e di tutti noi, ma anche dell’irresponsabilità di gran parte della classe dirigente, non solo politica, del paese, ci siamo ritrovati in pieno contesto neo-proporzionale: alla persistenza del bicameralismo paritario, si sono aggiunte, nel frattempo, due sentenze della Corte costituzionale che hanno drasticamente indebolito la possibilità di imprimere una curvatura maggioritaria alla legge elettorale. È in questo scenario che il segretario del Pd, che nel frattempo ha vinto nuovamente la sfida democratica per la guida del partito, ha cercato di corrispondere all’appello del presidente Mattarella di dare comunque al paese una legge elettorale omogenea alla Camera e al Senato e condivisa da un ampio schieramento di forze politiche, ben oltre i confini della maggioranza di governo.

 

Quindi, anche negli ultimi giorni, Renzi ha le idee chiare, secondo lei? A molti non parrebbe…

L’atto di responsabilità e generosità, da parte di Renzi e del Pd, di non lasciare nulla di intentato per corrispondere alle sollecitazioni del Capo dello Stato, è stato scambiato, non sempre in buona fede, per un’abiura del principio maggioritario e per un’opzione a favore di quello proporzionale. In ogni caso, ci ha pensato l’ennesimo voltafaccia del M5s a far fallire l’accordo sul sistema tedesco e a far tornare tutti alla casella di partenza di quello che lei ha giustamente definito un gioco dell’oca. La casella di partenza sono le leggi elettorali vigenti (l’Italicum alla Camera e il Porcellum al Senato), come modificate dalle due citate sentenze della Consulta. In entrambe ha resistito un barlume di maggioritario: alla Camera col premio di maggioranza attribuito alla lista che prenda più voti delle altre e superi la soglia del 40 per cento dei votanti; al Senato con una soglia di accesso al riparto dei seggi fissata all’8 per cento in ciascuna regione… È in questo contesto che si è tornati a parlare di coalizione, o meglio, almeno alla Camera, di una «lista coalizionale» di centrosinistra, imperniata sul Pd come soggetto federatore di uno schieramento più ampio. Ad essere sinceri, non mi pare una grande novità, tanto meno una svolta. È quello che il Pd ha sempre detto e pensato, almeno da quando Renzi è il segretario.

 

A molti è parso di vedere chiaramente nell’accordo sulla legge proporzionale la pazza voglia di dar vita, dopo il voto, ad una «Grande coalizione» con il Cav. Insomma siamo alle solite:  il tatticismo renziano ha sempre un unico obiettivo, quello di tornare a Palazzo Chigi. Non le sembra che sia giunto il momento di cambiare per davvero? 

Il Pd ha fatto proprio, fin dalla sua fondazione, dieci anni fa, il principio  sul quale si basano tutte le democrazie parlamentari europee: alla guida del governo è chiamato il leader del partito più votato, che dunque è al tempo stesso capo del partito e del governo. Solo in Italia questa norma è continuamente sottoposta a obiezioni e critiche che nel resto d’Europa sono incomprensibili. Merkel e May, Tsipras e Rajoy hanno una sola cosa in comune: tutti e quattro sono premier del loro paese, in quanto sono, e fino a quando resteranno, leader del partito più votato. A Londra come a Berlino, a Madrid come ad Atene, sarebbe semplicemente inimmaginabile, perché in definitiva antidemocratico, che il premier fosse il leader di un partito minore, o un esponente minore del partito principale, o addirittura una personalità non di partito. Perfino in Francia c’è questa fusione di leadership politica e istituzionale, a condizione che il presidente eletto conquisti anche una chiara maggioranza parlamentare. Aggiungo che in tutte le democrazie europee si forma il governo attorno al leader del partito più votato, perfino nel caso che questi non disponga della maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, come è il caso, in questa fase, di tutti e quattro i leader-premier citati. Nessuna forza minore si sognerebbe infatti di condizionare il proprio appoggio al governo esprimendo un veto alla premiership nei confronti del leader del primo partito. Presentare quindi la sacrosanta ambizione del leader del Pd di tornare alla guida del governo del paese attraverso una vittoria elettorale, anziché come la fisiologia di una democrazia matura e compiuta, come una pretesa capricciosa, se non una deriva autoritaria, non è altro che una delle manifestazioni più vistose e preoccupanti dell’anomalia della democrazia italiana, un’anomalia che il paese sta pagando cara da ormai troppo tempo.

 

Pisapia, Prodi in questi giorni hanno lanciato segnali chiari. E Prodi si è messo a disposizione per tenere unito il Centrosinistra. Lo sosterrete senza riserve? Insomma sarete aperti alla mediazione? E quali punti strategici dovrebbe avere una buona mediazione? 

 

Il Pd è nato per unire il centrosinistra. Ma l’unità del centrosinistra è un obiettivo totalmente altro rispetto ai due miti politici della Prima Repubblica: l’unità delle sinistre e l’unità politica dei cattolici. La definizione del Pd che preferisco è quella che ne diede Romano Prodi: il Pd è la «Casa comune dei riformisti», quei riformisti che prima erano divisi lungo linee di frattura disegnate dalla guerra fredda e che solo dopo la caduta del Muro di Berlino è stato possibile riunire, prima nell’Ulivo e poi nel Pd. Questa è l’unità che dobbiamo costruire, nel Pd, attorno al Pd e anche oltre il Pd: l’unità dei riformisti per cambiare l’Italia, per renderla un paese moderno e aperto, competitivo e inclusivo. Come i governi del Pd hanno cercato e stanno cercando di fare in questa difficile legislatura. Non possiamo invece riproporre agli elettori, che sarebbero i primi a rifiutarla, una unione senz’anima, machiavellica, pensata e costruita solo per vincere, ma poi nei fatti incapace di governare, perché priva di un vero collante politico e programmatico. Il Pd è nato proprio per superare le coalizioni coatte, tenute insieme solo dal nemico comune e per dare una vocazione maggioritaria all’unità dei riformisti.

 

Domenica prossima ci saranno i ballottaggi. In alcune realtà il PD è allo sbando. Non sarebbe ora che Renzi sì prenda cura del partito? 

Sì, spero che la nuova segreteria riesca a fare di più e meglio di quanto non siamo riusciti a fare noi negli anni scorsi. Detto questo, il Pd è il partito che ha già vinto nel numero maggiore dei comuni dove si è votato l’altra domenica e dove non ha vinto è quasi ovunque al ballottaggio. Dunque non è affatto allo sbando. Come avrebbe detto Mark Twain, la notizia della morte del Pd è risultata largamente esagerata. Così come, sempre alla luce dei risultati delle amministrative, è apparsa largamente esagerata e quantomeno prematura l’attribuzione al M5s dell’aura dell’invincibilità.

 

Ultima domanda: Renzi sarebbe disposto anche per la prossima legislatura a lasciare il campo a Gentiloni in nome di un interesse superiore, l’unità del centrosinistra?

 

Pensare di costruire l’unità del centrosinistra contro il leader del Pd, indicato come candidato premier da una consultazione popolare che ha coinvolto quasi due milioni di persone, mi parrebbe una ben strana pretesa. Su questo Gentiloni per primo ha detto parole chiare. Se gli elettori daranno al Pd la forza per proporsi come asse portante del governo del paese nella prossima legislatura, a guidare il governo non potrà che essere chiamato il leader del Pd. Come avverrebbe in tutti gli altri paesi d’Europa.