Giorgio Tonini, "Trentino", 2 febbraio 2010
Poi toccherà alle liste per i consigli regionali e con la fine del mese saremo in campagna elettorale in ben tredici regioni italiane. Si avvicina quindi il momento della battaglia elettorale ed è necessario serrare i ranghi. La posta in gioco è infatti molto alta. Nel 2005, di quelle tredici regioni oggi in palio, il centrosinistra ne aveva conquistate undici: un risultato irripetibile. Oggi il centrosinistra si accontenterebbe di tenerne sei o sette. Al di sotto di quel livello di guardia, la sconfitta diventerebbe una rotta e la vittoria di Berlusconi un trionfo. Con tutti i rischi del caso, non solo per il Partito democratico e il centrosinistra, ma per il Paese.
E tuttavia, proprio questo stato di cose spiega perché, ad appena tre mesi dalla sua elezione a segretario del Pd, la leadership di Pierluigi Bersani e ancora di più la sua linea politica, siano già messe in discussione. E non tanto da parte di quanti, tra i quali chi scrive, lo avevano lealmente avversato nella lunga stagione congressuale. E' stato lo stesso Romano Prodi, insieme a Walter Veltroni padre fondatore prima dell'Ulivo e poi del Pd, a chiedersi pochi giorni fa su "La Repubblica" non solo "chi comanda nel Pd", ma ancora più radicalmente "se ci siano ancora le condizioni per stare assieme". A quest'ultima domanda, Francesco Rutelli e con lui una nutrita pattuglia di parlamentari hanno già risposto di no, uscendo dal partito per dare vita all'Api, o per confluire direttamente nell'Udc. A loro volta i radicali, che avevano iniziato un tormentato percorso di confluenza nel Pd, hanno ripreso per intero la loro libertà, compresa quella di correre fuori dai confini del centrosinistra. Nel frattempo, la vicenda Bonino nel Lazio e quella Vendola in Puglia hanno diffuso la sensazione di un ribaltamento dei ruoli all'interno del centrosinistra, con un Pd che da polo di attrazione diventa terreno di incursioni e scorrerie altrui. In un simile scenario, parlare di "cedimento strutturale" del Pd, come ha fatto sul "Trentino" di venerdì scorso Lorenzo Dellai, è certamente forzato sul piano descrittivo, ma non del tutto su quello previsionale: se le cose vanno avanti così, quello descritto da Dellai può diventare l'esito inevitabile.
Il problema è capire come intervenire, dopo le elezioni regionali, per fare delle politiche del 2013 una sfida aperta e non già un confronto tutto all'interno della metà campo del centrodestra. Dellai pensa che Bersani debba accentuare, anzi radicalizzare, la discontinuità rispetto alla linea veltroniana della "vocazione maggioritaria" e del "partito delle primarie", frutti a suo dire di una suggestione "americana", illusoria e fuorviante. E debba farlo in favore di "una nuova architettura del sistema politico italiano", basata su coalizioni multipartitiche, come tali incompatibili con le primarie, e su partiti identitari, tra i quali il Pd dovrebbe riscoprire la propria identità di "sinistra", lasciando ad altri la rappresentanza del "centro".
Sono tra coloro che pensano invece che il Pd debba riscoprire e rilanciare le intuizioni originarie che furono alla base della sua fondazione, a cominciare proprio dalla vocazione maggioritaria: che non significa, non ha mai significato, presunzione di autosufficienza, ma meno banalmente riforma del bipolarismo italiano, nella direzione di una piena maturità europea. Non serve scomodare l'America per vedere come anche in Europa il bipolarismo si strutturi sulla competizione o tra due partiti, o tra due coalizioni, ma costruite entrambe attorno ad un grande partito che raduna attorno a sé, al suo programma, alla sua leadership, poche forze intermedie. Solo in Italia, dal 1994 al 2008, il bipolarismo si è tradotto in frammentazione esasperata, con poche forze politiche di media grandezza, nessun vero grande partito e uno sciame di partitini a conduzione familiare, in perenne metamorfosi.
Sul versante di centrodestra, questo stato di cose, strutturalmente contraddittorio con qualunque esigenza di governabilità, è stato compensato dalla leadership individuale, corredata di imponenti risorse private, di Silvio Berlusconi, con tutti i noti rischi di conflitto d'interesse e di degenerazione populista del nostro sistema democratico. Sul versante opposto, la deriva della frammentazione ha portato all'infausta esperienza dell'Unione, che non solo ha abbattuto il governo che avrebbe dovuto sostenere, il Governo Prodi, ma ha scavato un fossato profondo tra il centrosinistra e il Paese. Su quel fossato, il Pd di Veltroni, nel 2008, con le sue scelte al tempo stesso obbligate e coraggiose, ha lanciato un ponte, il ponte della riforma del bipolarismo italiano, che infatti è uscito trasfigurato dalle elezioni politiche: due grandi partiti, di dimensioni europee, uno poco sopra e uno poco sotto il 35 per cento, e tre forze intermedie (Lega Nord, Udc, Idv), alle quali potrà aggiungersene un'altra, a sinistra del Pd, qualora riesca a superare l'attuale condizione di diaspora.
Certo, il Pd ha perso le elezioni nel 2008, ma a causa del fallimento dell'Unione, non della sua vocazione maggioritaria. Sarebbe quindi un tragico abbaglio pensare di tornare a vincere (e a governare) liberandosi della seconda e riproponendo sotto mutate spoglie la prima: una coalizione costruita sommando tutte le forze contrarie alla destra, senza preoccuparsi della loro capacità di condividere un programma di governo, attorno ad una leadership riconosciuta.
Che questo schema, lo schema classicamente italiano della coalizione frammentata e disordinata, non possa funzionare, lo dimostra lo stesso Dellai, quando afferma di considerarlo incompatibile con la pratica delle primarie: cioè con lo strumento, certo imperfetto e tuttavia ormai affermato, per dare risposta alla prepotente domanda di partecipazione diretta dei cittadini alle grandi decisioni politiche che, pur con tutte le sue inevitabili ambivalenze, è uno dei segni più marcati di questo nostro tempo.
E lo dimostra, lo stesso Dellai, con ancora maggiore evidenza, quando invoca il ritorno ad un'alleanza tra un "centro" e una "sinistra" distinti tra loro: di nuovo uno schema sconosciuto all'Europa, dove da questa parte dello schieramento politico, i grandi partiti sono solo partiti riformisti, come tali di "centrosinistra". Una distinzione, quella tra centro e sinistra, che può cercare il suo fondamento solo nel passato, nella storia certo travagliata del nostro Paese. Ma non può reggere alla prova del futuro: perché il domani d'Italia domanda un partito nel quale le diverse tradizioni riformiste, consapevoli ciascuna della propria insufficienza dinanzi agli inediti problemi del nostro tempo, convergano nella ricerca di un pensiero nuovo, di un nuovo programma riformatore e nella formazione di una nuova generazione di dirigenti politici, all'altezza dei grandi problemi del Paese. Attorno ad un grande Partito democratico, si potrà costruire un nuovo sistema di alleanze per il governo dell'Italia. Senza il magnete di un grande partito a vocazione maggioritaria, a vincere sarebbe solo la forza centrifuga, una nuova, letale stagione di frammentazione.
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