Il Trentino Alto Adige è l'unica regione d'Italia che presenta un bilancio Inps in attivo: a fronte di 3 miliardi 233 milioni di euro in entrata (contributi pagati da imprese e lavoratori), le uscite (pensioni erogate) sono 3 miliardi 33 milioni di euro.
Giorgio Tonini, "Trentino", 18 maggio 2017
Dunque il bilancio previdenziale della regione presenta un attivo di 200 milioni. Tutte le altre regioni presentano un bilancio in rosso: pagano per le pensioni più di quanto riscuotano in contributi. A certificare questa clamorosa smentita della vulgata che dice che la nostra è un'autonomia assistita, che si fa bella coi soldi degli altri italiani, non è un documento firmato da Rossi e Kompatscher, ma l'ultima edizione dell'autorevole "Rapporto sulla regionalizzazione del bilancio previdenziale", sesta edizione, aggiornata al 2015 e predisposto dal Centro studi e ricerche di "Itinerari previdenziali", un think-tank indipendente fondato e presieduto dal prof Alberto Brambilla, lombardo di Merate, da sempre vicino alla Lega Nord, sottosegretario al Lavoro con delega alla previdenza nel Berlusconi II e III e presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale dello stesso dicastero nel Berlusconi IV. Una miniera di dati, il Rapporto Brambilla. Il più eloquente dei quali è la dimostrazione "per tabulas" che il debito previdenziale è la componente di gran lunga prevalente del nostro debito pubblico: il 68,3% dei 2.170 miliardi di debito pubblico italiano (dato 2015), pari a 1.491 miliardi di euro, non è altro che il prodotto del cumularsi dei disavanzi annuali del nostro sistema previdenziale. Si potrebbe anche metterla così: se nei decenni passati avessimo tenuto in equilibrio i conti della previdenza, oggi avremmo un debito pubblico pari non al 130% del pil, ma poco sopra al 30, la metà del livello prescritto dai trattati europei.
O magari avremmo potuto utilizzare l'altra metà per fare investimenti, che avrebbero alimentato crescita e occupazione, invece di assistenza. Il disavanzo previdenziale è infatti l'altra faccia della disoccupazione: pochi occupati significa pochi contributi e tanti disoccupati da assistere, magari (sbagliando) con pensionamenti troppo precoci. E viceversa, come un cane che si morde la coda: se la principale causa della disoccupazione è la carenza di investimenti, un eccessivo disavanzo previdenziale brucia risorse che avrebbero potuto essere orientate verso impieghi produttivi. La buona notizia, in questo quadro preoccupante, è che le riforme fatte, insieme alla politica economica degli ultimi governi, stanno funzionando. Negli ultimissimi anni, si è andato delineando un trend di miglioramento, graduale e ancora lento, ma sempre più solido: il tasso di copertura, ovvero la percentuale di spesa previdenziale coperta da contributi, che tra il 2001 e il 2013 è rimasto bloccato al 73,6, nel 2014 è salito al 75 e nel 2015 al 76,2. Risultato di enorme rilevanza se si tiene conto che è stato conseguito in una fase segnata dalla più grave recessione dalla fine della seconda guerra mondiale e un trend demografico negativo. Dietro la media nazionale, si nasconde il dramma dello storico dualismo territoriale italiano: il tasso di copertura 2015, al Nord è stato dell'86,68 % (era l'84,34 nel 2013), al Centro del 77,25 (75,33), mentre al Sud si è solo da poco riusciti a rimettere la testa fuori dall'acqua: 51,33 contro il 49,99 del 2013.
Il Trentino Alto Adige (il rapporto fornisce solo il dato regionale) ha fatto registrare un tasso di copertura del 106,61 (104,5 nel 2013): in pratica con i nostri contributi non solo abbiamo pagato tutte le pensioni erogate nella nostra regione ma anche una piccola frazione di quelle dei connazionali. Il dato trentino-altoatesino peggiora, anche se di poco, se nel conto previdenziale si introduce il dato sui pubblici dipendenti (ex-Inpdap): restiamo la regione più virtuosa ma anche noi andiamo in passivo, col tasso di copertura che scende al 99,36 (ma con un trend tutto al rialzo: eravamo al 90,32 nel 2001), rispetto al 76,43 della media italiana e all'85,24 del Nord.
Ma il dato forse più interessante è quello sul cosiddetto "residuo fiscale", la differenza tra le entrate complessive regionalizzate (tasse e contributi) e le spese complessive regionalizzate, tranne quelle per interessi. Data la complessità del calcolo dobbiamo accontentarci di un aggiornamento fermo al 2012. In quell'anno il bilancio dello Stato ha fatto registrare un avanzo primario, ossia al netto degli interessi sul debito, di 39 miliardi di euro, pari al 2,5% del pil. A questo risultato hanno contribuito solo 8 regioni su 20: in ordine decrescente di importanza Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige, Marche e Lazio. Le altre 12 hanno prodotto un disavanzo primario, dunque hanno speso più di quanto abbiano riscosso: tutte le regioni del Mezzogiorno, ma anche 3 regioni del Nord (Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Liguria) e una del Centro (Umbria), con ben 4 regioni a statuto speciale su 5, in pratica tutte tranne la nostra.
Certo, il nostro residuo fiscale è ben lontano da quello della Lombardia, che è la vera locomotiva d'Italia: 17% del pil regionale, contro il nostro 4; e 5.788 euro pro capite, contro i nostri 1.340. Resta il fatto che i numeri smentiscono in modo inoppugnabile la propaganda che dipinge la nostra autonomia speciale come un privilegio anacronistico a spese del resto del paese. E iscrivono a pieno titolo il Trentino Alto Adige al ristretto club delle regioni virtuose e trainanti.