Bruno Dorigatti, "L'Adige", 27 gennaio 2010 Non è la prima volta che si discute di scuola, del suo assetto attuale e di una sua riforma.
In Italia sembra quasi un clichè ricorrente: ogni governo sente il dovere di mettere mano al sistema di istruzione e formazione, spesso ribaltando di netto quanto approvato - e mai applicato - dai governi precedenti. Il risultato tragicomico è che la scuola italiana è praticamente ferma: forse non da un secolo, come dicono i più caustici, anche se come paradosso ci può stare. Altro clichè ricorrente è l'assoluta incapacità, da parte della politica, di aprire un rapporto stabile, aperto e dialettico con il mondo della scuola: ogni tentativo di riforma ha il vizio della fretta. Sembra che la nostra autonomia non ci salvaguardi, in questo senso: dalla riforma Moratti alla riforma Gelmini ci siamo trovati a rincorrere, se non i contenuti, sicuramente le scadenze imposte, imprimendo accelerazioni incaute e dannose. In un clima del genere è facile scadere nel manicheismo: fronte pro e anti riforma si scontrano senza nessuna possibilità di arrivare ad una sintesi. Spariscono le sfumature: o approvi o contesti, in toto, senza appello. A questo si aggiunge la strumentalizzazione politica: come dare credibilità alla destra trentina che si fa paladina della scuola, quando a livello nazionale la sta stroncando a suon di tagli alle risorse e agli organici? E come condividere le sue iniziative in aula, quando lega una richiesta politica alla stabilità stessa del governo provinciale? La destra non ha l'autorevolezza per chiedere le dimissioni di nessuno: considerato lo scempio che stanno compiendo a Roma - non ultimo l'abbassamento a 15 anni dell'obbligo scolastico - le uniche dimissioni da richiedere sono quelle del ministro Gelmini. Capisco la frustrazione di docenti, insegnanti e genitori che protestano: è avvilente sapere di avere molto da dire e nessuna possibilità per intervenire nel concreto, a fronte di un'urgenza che sembra annullare ogni ulteriore possibilità di confronto. Io stesso faccio fatica ad assumere una posizione netta: riconosco nella proposta della Giunta alcuni spunti di grande interesse, ma allo stesso tempo non posso evitare di sottolineare delle fragilità su cui è necessario intervenire, prima della loro applicazione. Mi chiedo, ad esempio, come sarà possibile colmare il vuoto causato dalla soppressione dell'istruzione professionale senza essere intervenuti per tempo sulla natura del sistema della formazione professionale, a partire dalla sua provincializzazione. La gatta frettolosa, si sa, mette al mondo gattini ciechi: anche noi rischiamo di imporre alla scuola una riforma che si potrebbe rivelare fallimentare non tanto per i suoi obiettivi, ma per l'impossibilità di garantire gli strumenti per la sua attuazione. In altre parole, sono convinto che per una trasformazione della scuola che ne faccia reale strumento di mobilità sociale, di produzione e riproduzione di conoscenza, di alta professionalizzazione in prospettiva lavorativa, non basti intervenire sul monte orari e sulla forma del sistema: è necessario immaginare nuove modalità di trasmissione delle conoscenze e di organizzazione della didattica, nuove forme di reclutamento del personale docente, nuove strutture di ricerca, nuove connessioni con le università e il mondo del lavoro. Per fare questo, e per farlo in modo organico, è necessario liberarsi dalle contingenze e da questa fretta perversa: e se non abbiamo la fortuna di avere un referente politico nazionale all'altezza della situazione, sfruttiamo fino in fondo le competenze che ci offre la nostra autonomia. Non è il momento di riforme di basso profilo e di interventi spezzatino: abbiamo la necessità di una ristrutturazione di sistema, che non faccia piazza pulita di quanto di buono la scuola italiana ha saputo costruire, ma che nel contempo la rimetta nelle condizioni di affrontare le gravi responsabilità che, oggi più che mai, la società le chiede. Rimane forte una convinzione: per una vera riforma non bastano le ingegnerie di sistema, le architetture studiate a tavolino, ma è necessario rendere tutte le componenti del mondo della scuola attori protagonisti, soggetti partecipi dentro la loro realtà. Un'ora di lezione in più o in meno non cambierà il futuro di uno studente: cinque anni trascorsi in un ambiente asfittico e poco inclusivo pongono al contrario una grave ipoteca sulle sue opportunità concrete di vita, professionale sociale e culturale.
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