N ell'era della post-verità si può dire e credere quello che si vuole. Per molti italiani, la vittoria del No è significata la sconfitta di un tentativo autoritario, la messa in sicurezza della Costituzione, la liberazione da Renzi «l'usurpatore». Purtroppo però, la post-verità non è ancora riuscita a proiettarci nella post-realtà.
G. Echeverria, 14 dicembre 2016
I problemi dell'Italia rimangono. E rimangono anche le storture del sistema politico e le conseguenze per il Paese. Da 30 anni non cresciamo in modo sostenuto, continuiamo ad indebitarci ma non riusciamo a ripartire. C'è un dato particolarmente significativo: nel 2016 per portare il Pil poco al di sopra del 1%, abbiamo avuto bisogno di fare il 2,4% di deficit. È come se per fare un chilo di pane usassimo 2 chili di farina, o per fabbricare un tavolo che sul mercato vale 100 usassimo legname per il valore di 200. Quale azienda riuscirebbe a reggere in una situazione del genere? Quale famiglia? Quale Paese? Lo Stato, il motore del sistema, quello che dovrebbe spingere l'economia e far valere i diritti dei cittadini, spende in Italia ogni anno circa 800 miliardi di euro, una cifra monstre che tuttavia non gli permette di raggiungere quegli obbiettivi.
Il declino è evidente a tutti e il «disagio» sociale, di cui tanti si riempiono la bocca, come se questo fosse sufficiente, cresce. È evidente che qualcosa non va in questo motore in cui si continua a pompare benzina (le tasse e i debiti) ma le ruote stentano a girare. C'è bisogno di una revisione profonda, la sostituzione delle parti guaste, la modernizzazione di quelle obsolete.
Ognuno degli interventi necessari per rinnovare lo Stato, per permettergli di tornare ad essere un volano per il Paese e non la sua zavorra, richiede di toccare rendite di posizione, interessi e privilegi consolidati. La riforma delle istituzioni, il rafforzamento del sistema di decisione, il ridimensionamento dei poteri di veto, ciò che la Riforma bocciata il 4 dicembre in parte proponeva, non sono le idee strampalate di un premier ambizioso o un tentativo di golpe, bensì la condizione sine qua non per fare tutto il resto. Passare definitivamente da una democrazia consociativa, dove ogni decisione richiede l'approvazione di un ampio numero di attori e la responsabilità non è mai di nessuno, a una democrazia competitiva, nella quale le forze politiche concorrono e si alternano al potere, non è un esercizio da apprendisti stregoni. Si tratta, piuttosto, di un tentativo di dare risposta al problema più urgente del nostro paese. Se la politica non è messa nelle condizioni di governare e di assumersi le proprie responsabilità, il futuro dell'Italia non potrà che essere grigio. E lo sarà indipendentemente dal fatto che al governo vi siano Salvini, Grillo, o lo stesso Renzi, perché non siamo di fronte a un problema di guida, ma di funzionamento della macchina istituzionale. È questa la questione ineludibile da cui dobbiamo partire, riflettere sulle ragioni della sconfitta del SI deve servire a porre le basi per un nuovo tentativo di riforma, questa volta vincente. Diverse sono state le ipotesi fin qui avanzate. Renzi non avrebbe colto i problemi veri del paese, avrebbe sbagliato strategia comunicativa, sarebbe troppo protagonista. La riforma era eccessivamente ampia, difficile da capire, confusa nei suoi obiettivi. Il PD si è presentato per l'ennesima volta diviso, senza un accordo, pugnalato alle spalle dalla minoranza. Tutti elementi importanti, certamente, ma che, a mio avviso mancano la questione fondamentale.
La Costituzione, le regole del gioco, proprio per la loro funzione super partes, prima ancora di essere buone o cattive, lunghe o brevi, redatte in modo semplice o complicato, hanno bisogno di essere condivise. Solo se la maggior parte degli attori politici supporta il cambiamento delle regole comuni, questo processo avrà possibilità di essere portato a compimento. È molto difficile, se non impossibile, che una «parte», anche se ispirata dalle migliori intenzioni, o con la riforma perfetta in tasca, o con il leader più bravo al comando, possa vincere da sola. In politica, come ben chiarì Carl Schmitt, a scontrarsi non è la bontà delle idee, ma la forza delle parti e dei loro interessi; la distinzione fondamentale è quella fra amico e nemico. Se è il nemico a proporre un'idea, per buona che sia, per l'altra parte, con poche eccezioni, quell'idea sarà sempre sbagliata. Per cambiare le regole comuni, dunque, almeno per uno spazio di tempo limitato, bisogna essere tra «amici», bisogna trovare un accordo.
Da questo punto di vista, guardando al percorso che ha portato fino al referendum del 4 dicembre, il punto di inflessione decisivo, quello che ha determinato in negativo le sorti della riforma, potrebbe essere stato la rottura del patto del Nazareno a seguito dell'elezione del Presidente Mattarella. Nell'arco di pochi giorni, il capolavoro politico di Renzi, cioè quello di aver fatto sedere Berlusconi, l'altra «parte», al tavolo delle trattative, facendo tabula rasa di 20 anni di anti-berlusconismo nel suo partito, è andato in frantumi. Probabilmente, con il cuore della riforma approvato, l'ex-premier credette che Berlusconi non servisse più, che sarebbe bastata la forza delle idee e la voglia di cambiamento dei cittadini a far approvare la riforma. Oppure, incalzato dalla minoranza, pensò che fosse più importante l'unità del proprio partito piuttosto che l'alleanza con l'ex-Cavaliere. Fatto sta che, rompendo con Berlusconi, l'accordo fra le parti venne a mancare e la riforma diventò di colpo una riforma «di parte», proprio come quella proposta nel 2006 dal centro-destra e bocciata anch'essa da un referendum popolare. Nell'era della post-verità si può dire e credere quello che si vuole. Il senso profondo della politica, però, anche quello rimane sempre lo stesso: uno scontro fra parti, la dialettica fra amico e nemico. I «momenti costituenti», per avere successo, per produrre figli legittimi che siano riconosciuti da tutti, devono rompere con la dinamica consueta.
Le parti, ancorché per un breve periodo, ma fino in fondo, devono riscoprire di essere pezzi di un unico insieme, amiche per quel lasso necessario di tempo a riscrivere le regole comuni e poi tornare a darsi battaglia. Se si vuole finalmente portare a casa le riforme e avere anche in Italia una democrazia competitiva, è da Berlusconi o da Grillo che bisogna passare. Il primo, però, sembra non volerla più, il secondo non sa nemmeno lui cosa vuole.